La storia amara dello zucchero nell’industria saccarifera veneta
Una produzione importante che per decenni ha dato lavoro a migliaia di persone è stata quasi arrestata del tutto nel 2006 con una riforma dell’Unione Europea. 17 zuccherifici su 19 sono stati chiusi in Italia. La nazione ha accettato una decurtazione del 50% delle quote produttive, accanto a una riduzione del 35% del prezzo dello zucchero
Prima dell’avvento dell’era industriale, le sole fonti di sapore dolce nel mondo erano il miele e la canna da zucchero. Utilizzata nella cultura mesopotamica e giunta sulle tavole europee per mezzo delle Crociate, la canna nel XII secolo viene venduta a caro prezzo nelle farmacie. Il saccarosio, infatti, è un conservante naturale conosciuto fin dall’antichità che, disidratando l’alimento, crea un habitat non idoneo alla crescita batterica. In competizione con il dolce succo di questa pianta tropicale giunge la barbabietola da zucchero, presente in Europa fin nel 1600, e seminata, più tardi, su 32.000 ettari di terre francesi per volere di Napoleone. Mentre nell’Europa Centrale lo zucchero prodotto da questo tubero conosce un forte sviluppo, in Italia il primo vero impulso al commercio saccarifero avviene parecchi anni dopo, ad opera di Emilio Maraini che nel 1887 mette in effettiva produzione lo stabilimento di Rieti.
Cinque zuccherifici sorgono in Emilia e ben otto in Veneto con l’avvento del fascismo, per giungere al 1923 anno in cui Ilario Montesi crea la Società veneta per l’industria degli zuccheri operante nello zuccherificio di Este. Coraggioso ed esperto, il manager di Ancona nel 1927 prende il controllo azionario anche dell’impianto di Pontelongo di proprietà della società belga Sucrérie et Raffinerie, portando la città al centro di una rete di impianti saccariferi e distillerie con “sugodotti” che vanno da Cartura a Pontelongo e da Ariano a Bottrighe. 52 sono gli zuccherifici attivi in Italia in quegli anni, l’economia galoppa e dallo zucchero si estrae l’alcol etilico utile nella fabbricazione di esplosivi, gomma sintetica e carburante: nel 1939 l’accisa sullo zucchero è la seconda voce attiva più importante del bilancio statale. Nel periodo tra le due guerre vengono costruiti o rifatti numerosi zuccherifici, tra cui gli impianti veneti di Cervignano, San Michele al Tagliamento, Ceggia, Cavarzere, Sanguineto, Montagnana, Este, Cartura, Porto Tolle, Lama, Arquà Polesine, Costa, Badia Polesine e Polesella.
Il successo di questa polvere zuccherina – il cui nome deriva dal sanscrito sarkara e significa sabbia – è legato, nella Bassa Padovana e nel Polesine, alla vasta presenza d’acqua e all’alto tasso di umidità che rende la Pianura Padana territorio ideale per la crescita della barbabietola. Va detto inoltre che questa coltura è ottima per aumentare la produttività delle altre coltivazioni in avvicendamento, ridurre la presenza di erbe infestanti e parassiti e integrare la dieta di ruminanti e suini. Ѐ evidente che la coltivazione e la trasformazione industriale della barbabietola da zucchero hanno portato con sé un patrimonio culturale, sociale, economico e scientifico davvero significativo. Gli zuccherifici un tempo funzionanti davano lavoro stagionale a moltitudini di operai e di studenti ed è proprio in questo settore che il Polesine ha rappresentato, fin dagli inizi, un vero e proprio punto di riferimento. Fin dal 1901, in occasione del “Primo Congresso Nazionale dei Bieticoltori”, a Rovigo vengono poste le basi della bieticoltura e dell’industria saccarifera; situata all’incrocio degli assi produttivi Mantova-Venezia e Ferrara-Verona, la città – sede della “Regia Stazione Sperimentale di Bieticoltura” dal 1910 – contribuisce in modo tangibile alla ricerca e al miglioramento genetico delle varietà di barbabietola coltivate in tutto il mondo. Tuttavia lo zucchero non serve a niente, quando è il sale che manca.
Con la riforma operata dall’Unione Europea nel 2006 il nostro Paese è stato quello che ha maggiormente ridotto la propria capacità produttiva. Se oltre 100 zuccherifici sono stati smantellati in Europa, 17 su 19 sono stati chiusi in Italia. La nazione, infatti, ha accettato una decurtazione del 50% delle quote produttive, accanto a una riduzione del 35% del prezzo dello zucchero per equilibrare il livello dei prezzi dello zucchero europeo rispetto a quello dei paesi industrializzati extra europei. Le decisioni prese a Bruxelles sul mercato comunitario dello zucchero hanno così dimezzato, in un colpo solo, la bieticoltura. Rispetto ai 19 del 2005, in Italia sono operativi attualmente solo quattro zuccherifici. Se l’Italia rinunciasse anche agli ultimi presidi produttivi rimasti, sarebbe uno dei pochissimi paesi al mondo, insieme con Nigeria, Malesia, Corea del Sud e Arabia Saudita, a non disporre di una produzione nazionale, pur essendo il terzo mercato di consumo in Europa.
Consapevoli del ruolo prezioso della bietola, i coltivatori hanno accelerato lo sviluppo della filiera in tutti i suoi comparti. Con la migliore tecnologia oggi a disposizione, le aziende italiane possono produrre fino al 50% in più di barbabietola rispetto alla media. D’altra parte prosegue il lento recupero e riutilizzo degli zuccherifici veneti dimessi che ha visto la completa riedificazione dell’impianto di Montagnana, la trasformazione in centro direzionale di quello a Stanghella mentre Este, Cartura e Cavarzere si intende destinarli all’artigianato e a spazi incubatori d’impresa; pensando soprattutto a Pontelongo, uno dei più attivi d’Europa, forse uno dei pochi che di fatto continuerà a produrre zucchero viene da chiedersi se per i bieticoltori italiani, che dal 30 settembre 2017 si trovano per la prima volta a competere in un mercato europeo senza barriere, questi cambiamenti in atto stanno segnando la fine di un’era produttiva o l’inizio di una nuova dolce storia.
di Alessia Crivellaro