Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante

Il tempo e le stagioni nella civiltà contadina avevano una durata diversa dalle attuali. Tutto gravitava intorno alla vita biologica della terra e alla fasi lunari, per questo non esistevano i mesi ma le “quarantie” e le settimane avevano otto giorni
“Non ci sono più le mezze stagioni”. Lo diciamo spesso. Decisamente a sproposito quando il riferimento è al meteo. Sì, perché se è vero che qualche anno fa dall’inverno si passava direttamente all’estate, recentemente il passaggio è stato piuttosto da un prolungato autunno a un’incerta primavera. Le cause? Per quel che ne so io potrebbero valere tutte, compreso il buco nell’ozono del quale non si sente più tanto parlare. Mi ricordo che ci avevano convinti a non usare più la lacca per i cappelli, pareva che fossero proprio i gas contenuti nelle bombolette i principali responsabili per l’apertura del buco. Chissà se si è chiuso, e chissà se i calvi al tempo si sentissero estranei ai problemi di natura ambientale.
Che concetto abbiamo del passato? Si tratta di consapevolezza o piuttosto, appunto, di un sentimento? L’idea di sentimento confuso ma dolce non è da escludere. Così si spiegherebbe tanta retorica nostalgica dalla quale emerge un ritratto del passato sempre migliore nei confronti del futuro
A parte gli scherzi, il tema dei luoghi comuni è interessante e il discorso sulle “mezze stagioni” più che un fatto legato alla meteorologia sembrerebbe una questione di sentimento. Di sentimento nei confronti del passato. Perché la triste constatazione della sparizione delle stagioni di transizione implica il fatto che un tempo ci fossero, certo nella fantasia bucolica c’erano e ci sono ancora senz’altro. Nell’idea romanzata dell’idilliaco passato contadino della nostra terra pare che le stagioni viaggiassero in orario come orologi svizzeri e forse è proprio perché abbiamo un conto aperto con il nostro passato che le cose quando cambiano riteniamo cambino sempre in peggio. La nota amara che emerge dal detto sulle “mezze stagioni” è appunto il riferimento temporale che pare alludere al fatto che le cose andassero meglio nel passato, lo dimostra il fatto che oggi sono sparite metà delle stagioni. Allora viene da chiedersi: che concetto abbiamo del passato? Si tratta di consapevolezza o piuttosto, appunto, di un sentimento? L’idea di sentimento confuso ma dolce non è da escludere. Così si spiegherebbe tanta retorica nostalgica dalla quale emerge un ritratto del passato sempre migliore nei confronti del futuro. Quando il ragionamento va per astrazioni sentimentali allora è possibile anche ritenere che infondo- infondo “Si stava meglio quando si stava peggio”. E la povertà?. “Eravamo poveri, ma onesti”. Ma non c’era nemmeno da mangiare. “Sì, ma quel poco era sano e non si buttava niente”. Con i luoghi comuni, insomma, potrebbe non essere difficile trovare giustificazioni adatte anche alle situazioni per le quali sarebbe giusto non avere alcuna malinconia, a parte che il fatto che allora c’erano anche le mezze stagioni.
Ma era davvero così? Abbiamo perso le mezze stagioni o qualcosa di ben più importante? Sicuramente più che la primavera e l’autunno abbiamo perso la capacità di penetrare il senso di una civiltà, che aveva i propri ingranaggi in parte conficcati nei solchi della terra e in parte legati in quel cielo dove al tempo erano visibili molte cose, anche Dio, forse, ma soprattutto il destino che per i più aveva le forme della sussistenza.
I contadini all’osservazione della sfera astrale sapevano associare quella della vita della terra e ne ricavavano un tempo più reale
Per i nostri nonni o bisnonni le stagioni erano soltanto due: la “bela stagion” e la “bruta stagion”. “L’istà” e “l’inverno”. La “stagion” non aveva alcun riferimento meteorologico, la “stagion” era il tempo del lavoro, il tempo della preparazione dei campi, della semina, del raccolto. La “brutta stagione” era il tempo dell’inoperosità, un tempo infinito deve essere stato, visto che la società del tempo era costituita prevalentemente da braccianti avventizi che venivano impiegati a chiamata nei momenti di picco dell’attività agricola. Un contadino avventizio lavorava appena 150 giornate l’anno, una donna ancora meno, circa 90. La conseguenza era una miseria endemica dalla quale nessuno poteva affrancarsi, nemmeno tra i più intraprendenti. Il tempo del contadino era profondamente diverso dal nostro sia per come veniva percepito, sia per come veniva espresso.
Anche per circoscrivere precisamente il determinato periodo dell’anno, piuttosto che i nomi dei mesi, venivano usati più spesso i mestieri della campagna: “dal destacare”, inteso come il periodo della raccolta del mais, “dala meanda”, il periodo della mietitura del frumento, “sol tempo del vendemare”, o i santi come da “San Martin”, da “San Biajo”, “da la Madona”. La designazione degli anni, spesso, non portava cifre ma i fatti eclatanti che venivano ricordati dalle comunità: “l’ano del fredo”, “l’ano della fame”, “l’ano dell’aluvion” o dal singolo contadino: “l’ano che la tempesta na’ portavia tuto”, “l’ano che xe nato Tizio, morto Cajo, s’à maridà Sempronio”. Diversi erano pure i riferimenti per il calcolo del tempo e delle stagioni. Più che al calendario di 30 o 31 giorni i contadini guardavano il lunario, o meglio le fasi lunari e il “mese sinodico”, pari a circa 29 giorni e mezzo. Semine, tagli e stoccaggi delle derrate seguivano la luna e lo stesso vale per i periodi del calore, della nascita o della macellazione degli animali: le pecore vanno tosate in luna calante, i pulcini più forti e resistenti sono quelli che nascono in luna crescente e affinché l’insalata non fiorisca troppo in fretta occorre seminarla in luna calante e così le cipolle, in luna crescente, invece, bisogna fare la raccolta per non comprometterne la conservazione. “E come per le bestie i cristiani”: le fasi lunari sono determinati per la salute e il carattere. Non si dice “lunatico” a chi si mostra mutevole di umore o instabile? I contadini all’osservazione della sfera astrale sapevano associare quella della vita della terra e ne ricavavano un tempo più reale che veniva diviso in “quarantie”.
Non si trattava necessariamente di quaranta giorni, come il nome lascerebbe supporre, ma era un tempo calcolato assommando alle fasi lunari l’interpretazione metereologica dei periodi brevi come, ad esempio, il tempo necessario per la maturazione e mietitura del grano, così l’estate non iniziava il 22 giugno, bensì il 25 maggio, inizio della “quarantia” de “Sant’Urban che come si diceva allora “l’è tuta par el gran”. Da questa data la radice del frumento inizia a morire e quindi la spiga ad ingiallire e maturare facendo partire la “quarantia” di giorni nei quali si sarebbe conclusa la mietitura. Per l’uomo dei campi, dunque, la “quarantia” rappresentava una “piccola stagione” all’interno del tempo circolare al quale si affidava totalmente. Ogni “quarantia” aveva il nome del santo con il quale iniziava ed erano dodici, ma è opportuno ribadire che si trattava di un tempo ideale, i cambiamenti metereologici potevano allungarne e o abbreviarne la durata fino al totale annullamento e due o più “quarantie” potevano essere concomitanti e parallele come quelle riferite alla ripresa della vita nei campi dei Quaranta Santi e di San Gregorio.
Per i nostri nonni o bisnonni le stagioni erano soltanto due: la “bela stagion” e la “bruta stagion”. “L’istà” e “l’inverno”. La “stagion” non aveva alcun riferimento meteorologico, la “stagion” era il tempo del lavoro
Si iniziava con la prima nel nome di Santa Candelora (2 febbraio- 13 marzo) che come ricorda il proverbio designa la fine dell’inverno, salvo appunto non vi fossero fenomeni atmosferici in corso (“se piove o tira vento dell’inverno semo drento”) che pregiudicassero il reale cambiamento del clima e della stagione. La “quarantia” successiva partiva con S. Matia, copriva il periodo dal 23 febbraio al 3 aprile, seguiva quella di S. Gregorio, (12 marzo – 18/20 aprile). La quarta era quella dei Quaranta Santi, (11 marzo – 18 aprile), con l’inizio della stagione agricola l’attenzione per i fenomeni atmosferici era determinante: “sa piove al dì dei Quaranta Santi aqua par altrettanti” pregiudicando pertanto la semina e lo stesso valeva per la quinta dei “Tri aprilanti” che copriva dal 3 aprile al 13 maggio. Seguiva la doppia quarantia de Sant’Urban, (15 maggio -24/25 luglio), e quella de Sant’Ana, (26 luglio – 2 settembre) dedicate al periodo della raccolta. La quarantia de S. Gregorion (Gregorio Magno) iniziava il 3 settembre e si concludeva il 15 ottobre, era detta anche “la piccola estate de San Michiele. Concludeva l’anno la doppia “quarantia” de San Gal che dal 16 ottobre “dura fin a Nadal” e de Santa Bibiana (2 dicembre al 20 gennaio), “quranta giorni e na’ settimana” che sottolineava la durata del periodo del freddo invernale.
Il linguaggio si è modificato molto più lentamente delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita, e dunque non è raro che qualcuno per indicare il ciclo settimanale usi ancora l’ottavario”, la quinta parte della “qurantia”
Alle quarantie era legato l’andamento dei raccolti e con questi si gestivano le scorte nella dispensa della casa e della stalla, i periodi della penuria e dell’abbondanza, e ovviamente le scadenze contrattuali. Un confronto con le stagioni del passato, dunque, è del tutto impossibile nell’epoca dei week end, coltura e cultura erano entrambe legate alla terra in modo indistricabile e per noi oggi anche poco comprensibile, come del tutto misterioso è il senso di alcuni proverbi metereologici, un tempo legati alle quarantie. E’ il caso di “Sa piove a San Gregoriòn, sete brente e un brentòn” o “Sa venta a S. Matia, venta par ‘na quarantia”. Legata alle “quarantie” è l’espressione ancora in uso, tra le persone di una certa età, “Otto giorni oncò”, per indicare l’esatto concludersi della settimana, ma anche qui è necessario chiedersi con quanta consapevolezza visto che per noi la settimana è composta da sette giorni. Certi usi verbali del resto si giustificano per il semplice fatto che il linguaggio si è modificato molto più lentamente delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita, e dunque non è raro che qualcuno per indicare il ciclo settimanale usi ancora l’ottavario”, la quinta parte della “qurantia”: la fase e un quarto della pallida “Selene” con il quale era scandito il tempo lunare della nostra campagna in cui, anche a volerlo, non c’era assolutamente spazio per le “mezze stagioni”.