Archeologia industriale, quando il passato contiene ancora un sentimento

Nel paesaggio moderno sono molti i fabbricati che hanno perso la loro funzione a causa del trascorrere del tempo, rimangono testimonianze tristi di una società che cambia
Capita ancora, non così raramente, che il metallo degli aratri incocci in qualche pezzo rosso-arancio di mattone o tegola. Potrebbe essere il resto di qualche rudere agreste o, più probabilmente, in zone di centuriazione, un reperto di epoca romana. Tanti contadini hanno in casa questi pezzi di pietra, con il timbro di una fornace di duemila anni fa; altri hanno anche di più, pezzi di fregi, monete, frammenti di monili. In qualche caso i ritrovamenti sono stati così tanti che il sito è stato censito, qualche volta anche esplorato da esperti. Ad Arzergrande c’è persino un piccolo museo che espone rocchi di colonne, altri si possono trovare in chiesa.
In un mondo che corre, dove tutto passa e sembra non lasciare il segno, i segni invece rimangono, percepibili eccome
Questa cosa la chiamiamo “archeologia”. Son cose lontane. Ma l’aratro che sono i nostri occhi può scavare, se ne ha voglia, ogni giorno tra cose che ci circondano e che, ormai, sono il passato; di più, sono archeologia. Una parola che si avvicina sempre più ai nostri tempi, e velocemente. Nell’Ottocento l’antichità erano gli egizi, i greci e i romani; poi lo sono diventati il medioevo, quello lontano e quello alle porte di Colombo, dell’età “moderna”. Per noi è antico quello che per i nonni dei nostri nonni era “ieri”, il Sei e Settecento, con le ville veneziane e i giardini dal fascino decadente e le statue “attribuite” alla scuola degli onnipresenti Bonazza, talvolta riscoperte tra la vegetazione incolta.
Da tempo si parla, forse impropriamente, di archeologia industriale: e non si intende più solo un opificio come l’ex cartiera di Vas la cui attività risale al secolo XVII, e nemmeno le filande ottocentesche e le strutture produttive con la centrale elettrica dei Camerini a Piazzola sul Brenta; ormai anche per alcuni capannoni della zona industriale padovana si può parlare di archeologia, e hanno forse cinquant’anni. E non sono archeologia, allora, i computer Commodore che sognavano gli scolari a inizio anni Ottanta, i telefoni con la rotella, i primi iMac dal guscio colorato? E le opere di street art, come quella di Kenny Roberts che quest’estate uno scriteriato ha deturpato a Padova, non sono archeologia già nel momento in cui sono graffite? Nascono per essere tali. Sono gli affreschi che i nostri pronipoti troveranno scavando tra le Pompei della nostra civiltà.
C’è un luogo in cui mi sono imbattuto anni fa, in uno dei primi articoli che scrissi: l’ex zuccherificio di Cagnola, comune di Cartura. Sono passati quasi quarant’anni, c’era già allora un’idea di recupero e, passandoci davanti, ho sempre buttato l’occhio per vedere se era ancora lì, se ne avevano fatto qualcosa o se avevano raso al suolo tutto. Ho visto che davanti hanno ristrutturato, ci sono negozi, uffici. Dietro, c’è ancora il rudere che crolla. C’è un ristorante, che mi sento di citare, si chiama Distillerie Clan-Destine, che vi ha sede e che ha tappezzato le pareti di immagini storiche del complesso industriale, richiamandolo fin dal nome. L’ex zuccherificio si chiamava infatti Distilleria Montesi.
Ormai anche per alcuni capannoni della zona industriale padovana si può parlare di archeologia e hanno forse cinquant’anni
In un mondo che corre, dove tutto passa e sembra non lasciare il segno, i segni invece rimangono, percepibili eccome. E gli aratri del ventesimo secolo li portano alla ribalta continuamente. Non è strano che, nel mondo che sembra perdere sempre più la memoria, e pare “volerla” perdere apposta, internet faccia l’opposto, la eterni? Ci si scontra con un diritto all’oblio oggi quanto mai complicato. I “social” sono zeppi di persone che recuperano foto storiche, magari di noi da piccoli e in pose che non avremmo voluto che nessuno vedesse. Ma anche di luoghi che non sono più come erano, e di cui abbiamo la fortuna di avere testimonianza.
Se nel Settecento un parroco faceva ricostruire una chiesa, dopo pochi anni si perdeva la memoria di come era la precedente, a meno che qualcuno non l’avesse dipinta in un quadro. Oggi, possiamo invece saperlo. Perché, però, dovremmo avere voglia di saperlo? I social stessi sono pieni di storielle con saggi cinesi o indiani che stanno sulla riva di un fiume a guardare l’acqua che passa, o a riempire di sabbia e poi acqua un barattolo pieno di sassi, e poi svelano il loro insegnamento ai discepoli. Basta scorrere Facebook, prima o poi un post ci darà la risposta. Ma abbiamo davvero bisogno, di saperla? Davvero conoscere che il luogo che calpestiamo è stato vissuto da altri, prima di noi, non ci produce alcun effetto? Davvero non ci interessa saperne di più, abbiamo forse paura che cambi la prospettiva con cui guardiamo alle cose, per esempio che, forse, i nostri padri erano diversi da come ce li dipingiamo, o ce li hanno dipinti? Non ci piace sapere che le strade erano polverose, ad esempio… eppure, lo erano meno delle nostre, solo che allora la polvere non la chiamavano smog o PM10, ed era forse meno letale.

Rientrano nell’archeologia del recente passato anche i computer Commodore che sognavano gli scolari a inizio anni Ottanta, i telefoni con la rotella, i primi iMac dal guscio colorato
A Noventa Padovana attorno ai ruderi di una ex fornace, rimasti tali, si è realizzato un parco, sede ogni settimana di un mercato contadino molto partecipato. La gente vi passa, vi vanno le famiglie e i bambini a giocare. Quella torretta, quei muri aranciati, sono punti di domanda che l’inconscio sicuramente registra. Sono punti di riferimento che additano una strada. Non quella che percorrerà la nostra auto, per quella c’è l’asfalto. È la strada della nostra esistenza, quella che non dipende da noi, quella che ci ha pensati prima che nascessimo e continuerà dopo di noi. Quella che, nonostante noi, esiste sempre. Quella che respira e per la quale non esiste archeologia, tutto è sempre e solo presente.