Storia di una coltura e di una identità: il Veneto polentone

Dalla metà del XVI secolo il mais è una delle immagini agrarie della nostra pianura. La polenta è il simbolo di una stagione di miseria e povertà dalla quale è derivato anche il suo successo
La comparsa del mais ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per la campagna veneta, tanto da diventare una forma di identità. Polentoni è l’appellativo che identifica tutto il nord Italia e il Veneto nella fattispecie. Un titolo un po’ dispregiativo e in effetti ricorda una storia di miseria e povertà che va stretta al Veneto moderno. La polenta, infatti, è il simbolo della ruralità ma ancora di più della miseria, i popoli più avanzati avevano il pane, non la polenta. E nel successo che il mais ebbe nella nostra regione la povertà centra, perché la polenta si mangiava ancora prima che arrivasse il mais dalle Americhe. Era di melica. Di sorgo, per la precisione, impastata con la farina di altre granaglie, come il miglio, ma preponderante era questa farina che gli uomini del tempo condividevano malvolentieri con il maiale e con gli altri animali di bassa corte, tanto per farne capire la qualità. Perché nell’alimentazione dei secoli passati sono da sfatare molti miti, come ad esempio che alla base dell’alimentazione vi fossero i cereali. Non è così, il pane era raro, era più frequente la carne, vista la disponibilità di selvaggina e di pesce che boschi e fiumi erano in grado di offrire. Certo non in tutte le stagioni.
E poi le società del passato era costituita da braccianti, pastori, taglialegna categorie di lavoratori molto misere ma soprattutto caratterizzate dalla residenza in ricoveri precari, continuamente mutevoli e comunque non idonei alla più complessa attività di panificazione
La polenta era dunque, in primo luogo, un sistema molto semplice e rapido di preparazione di cereali per l’alimentazione. E quella di mais si diffuse molto rapidamente. Secondo l’agronomo padovano del XVII secolo Giorgio Dalla Torre la polenta di miglio non era più usata come un tempo dai contadini padovani, che ora preferivano il mais per confezionare una polenta “che con pochissimo lavoro e breve tempo faceva egregiamente le veci del pane”. La fortuna del mais fu istantanea e non solo per la polenta. Erano passati solo pochi decenni dalle prime coltivazioni ed era già entrata nelle abitudini alimentari. Ma quale erano stati i motivi di un successo così fulmineo? Certo per quanto riguarda le scelte agricole, il mais aveva trovato nell’abbondanza di acqua, nel caldo afoso della Pianura Padana e nei suoi suoli paludosi e torbosi il luogo perfetto dove prosperare. Le sementi introdotte a Venezia dalle Americhe dai mercanti e presto coltivate in forma sperimentale da qualche possidente della Terraferma o da qualche esponente dell’oligarchia veneziana nelle sue tenute agricole appena bonificate, deve aver rappresentato un’opportunità imperdibile.

La fonte più antica che parla del mais e delle sue zone di produzione è un trattato geografico, “Delle navigationi et viaggi” l’opera più importante dell’umanista e cancelliere della Repubblica veneziana Giovanni Battista Ramusio
Le informazioni a riguardo dei luoghi in cui si trovavano queste coltivazioni pioniere sono addirittura contenute in un trattato geografico, “Delle navigationi et viaggi”, il primo dell’età moderna, a firma di Giovanni Battista Ramusio. Era il 1554 quando il celebre umanista e cancelliere della Repubblica veneziana annotava che “…il mahiz delle Indie occidentali, che i portoghesi chiamano miglio zaburro, da qualche anno è venuto già in Italia di colore bianco e rosso, et sopra il Polesine de Rhoigo et Villa Bona seminano i campi intieri de ambedue i colori”. Dunque la Piccola Villa D’Adige, un tempo Villa Bona, ai piedi del grande fiume tra il Polesine e la Bassa veronese, è stato il centro per la sperimentazione, ma l’espansione deve essere stata rapidissima: fin dal 1581 sono documentate semine a Vighizzolo d’Este, nei possedimenti di Pier Maria Contarini, nobile veneziano, nello stesso anno vengono registrate colture anche nell’isola di Torcello, nel 1585 la presenza del mais è accertata a Piove di Sacco e nel 1588 a S. Apollinare, altro comune in provincia di Rovigo. Un’espansione che presto avrebbe travalicato anche i confini veneti e della Pianura Padana. Nel 1860 il nobile cremonese Giovanni Lammo offrì al Granduca di Toscana una partita di semi di mais affinché si potesse intraprendere la coltivazione nei territori medicei. Scriveva: “Questo grano è molto migliore et più nutritivo che non è i miglio, et rende più farina che non fa il fromento. Et è buono e saporoso pane, o semplice, o misturato, et composto con fromento fa perfetto biscotto, fa bonissima polenta”. Insomma il successo del mais si deve anche al fatto che la polenta che se ne otteneva era migliore di quella di miglio o di melica, miscelato con altri cereali si poteva ottenere anche un pane, non certo buono come quello di frumento, ma sempre meglio del “mapazone” che veniva condiviso con gli animali. Soprattutto per le classi meno abbienti il mais rappresenta un passo in avanti mica da poco nei valori alimentari, ma anche in quelli economici: la fortuna del mais, infatti, sta nell’essere stato una sorta di moneta. Utile certo per quella miriade di contadini veneti che per un fazzoletto di terra dovevano pagare un affitto o un livello stabilito in natura al proprietario della terra, cioè essenzialmente una quantità di frumento, e che per sopravvivere e portare sul mercato urbano quel poco di vino o grano che restava, si adattarono cibandosi della melica nuova, così produttiva e nemmeno tanto gradevole in forma di polenta, per ricavare qualche utile dalle produzioni più pregiate. Più o meno la stessa cosa accadeva per chi non aveva la possibilità nemmeno di condurre un campo a livello e prestava la sua opera come bracciante per i lavori stagionali in campagna, il loro reddito o il salario era totalmente in natura e pagato quasi esclusivamente con il mais, lasciando il frumento e gli altri prodotti al mercato.
Il mais nel 1600 è il salario del “boaro”, del castaldo, del bracciante avventizio e di qualsiasi lavoratore subordinato cioè della maggior parte del popolo veneto e per questo che il mais e la polenta ne divennero la bandiera

La polenta, Pietro Longhi (174 ca) Ca’ Rezzonico, Venezia
Un grande sole giallo campeggiante al centro del “panaro”, segno di una vita parsimoniosa e scarna che è andata via via sedimentandosi insieme all’idea che il passato di questa terra fosse una sorta di arcadia felix in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura. Ma chissà ancora per quanto il mais continuerà ad essere una coltura delle “basse”, il clima che cambia e le estati sempre più siccitose insieme ad un mercato che certo non premia le colture di poco pregio, stanno rendendo la sua coltivazione sempre più incerta. Con la scomparsa della Pac, forse scomparirà anche questa cultura archeologica e forse anche l’immagine stereotipa del Veneto polentone, forse a prendere il posto del mais saranno altre colture del centro America, forse saranno la quinoa o l’amaranto, questi due pseudocereali sono sempre più richiesti dai mercati internazionali nel settore dell’industria alimentare, soprattutto grazie allo loro totale assenza di glutine, di quella cosmetica e, non ultimo, anche di quella farmaceutica. Tutto questo anche se il loro prezzo internazionale è decisamente maggiore rispetto ai cereali più comuni, cioè frumento, mais, riso, orzo e avena. La quinoa per esempio, ha raggiunto la quotazione di 360 dollari al quintale mentre per il frumento ci aggiriamo intorno ai 19. Diventeremo i veneti quinotoni? Intanto abbiamo il prosecco…