Prima de parlar, tàsi…

Con il termine “Civiltà contadina” indichiamo il passato rurale di questa terra: i riti, gli usi e i costumi, insomma una cultura che però era analfabeta.
È in questo contesto, dove mancava il saper leggere e scrivere, che la parola assume un’importanza e una forza straordinarie. Sono innumerevoli i proverbi o gli aforismi che ne caldeggiano l’uso parsimonioso se non addirittura il silenzio: era questo forse un tentativo di difendere l’unico strumento a disposizione per trasferire da una generazione all’altra un millenario sapere?
“Ti: prima de parlar, tàsi”.
Un silenzio consigliato o imposto, per invitare a pensare prima di proferir parola o da estendere ad infinitum? Tra le varie interpretazioni plausibili, si potrebbe ipotizzare che non si tratti di un semplice ammonimento perentorio per bloccare sul nascere una petulanza insensata, oltre che sgradevole. No: si palesano, invece, in queste poche parole una consapevolezza che sfiora la psicologia esistenziale e un “sentenziar” che è parente stretto dell’essenzialità propria delle società rurali, dove la parsimonia viene estesa dall’economia domestica anche alle parole.
La lingua trascende la lingua, è corpo universale che comprende le sensazioni, le emozioni, il pensare e anche ciò che non è sentito e pensato
Il silenzio è conveniente, è un modo di stare al mondo, soprattutto se non si hanno argomenti o non si è in grado di usare con profitto le parole. Alla casistica andrebbe aggiunta anche la condizione sociale, il ruolo occupato dentro alla famiglia (prima che nella società) stabilito principalmente in base all’età. Come nelle “tribù” ad aver diritto di parola, o comunque la precedenza, erano i “saggi”, gli anziani anche se appartenenti al genere femmini le. Il detto: “La dona bisogna che la tasa, che la piasa e che la staga in casa”, infatti, più che come slogan della discriminazione sessista, andrebbe interpretato come un riferimento a ciò che della bellezza femminile poteva essere apprezzato in una società “pratica” come quella contadina. E non si intende certo la cultura (il saper parlare), che non c’era, ma l’essere osservante di un costume concreto che vedeva un profitto nell’attendere alla faccende domestiche (stare in casa) senza perdersi in ciance. Dal produrre tanto, a quel tempo, dipendeva la sopravvivenza del clan familiare e chiunque era chiamato a fare più che poteva, compresi i bambini, tranne gli anziani, i capi famiglia, che avevano funzione di guida.
Ma il silenzio era un invito per tutti, non solo per la donna, perché attraverso le parole spesso si può tradire la propria ignoranza, “ignoransa” alla quale il contadino sapeva di appartenere, per la mancanza di studi soprattutto, per non sapere ne’ leggere ne’ scrivere. Il silenzio, infatti, potrebbe appartenere anche a quel pragmatismo al quale i nostri contadini ricorrevano appunto “par non saver ne’ lezare e ne’ scrivare”, ma anche per rispetto di quella parola che era l’unico strumento a disposizione per la diffusione della propria cultura, poiché analfabeti. I nostri recenti antenati non avevano la possibilità di formarsi una cultura diversa da quella delle tradizioni che apprendevano vivendo in comunità. Era la cultura della parola, trasmessa con la parola: appunto la cultura orale o semplicemente l’oralità. Un’importanza fondamentale assume nella trasmissione dell’oralità la memoria individuale che, stimolata ad apprendere e ricordare dalla mancanza di scritti, si sviluppa e si rafforza là dove non vi sia confusione di parole. All’interno di questo contesto, l’esaltazione della parola porta a non sprecarla e al divieto di un suo uso improprio. È in questo contesto che è giusto parlare di “cultura dell’analfabetismo”, perché analfabetismo non significa assenza di cultura con la C maiuscola, ma piuttosto condizione in cui trova origine un’altra cultura, non meno alta, non meno intensa, non meno essenziale alla vita.
Un paesaggio sonoro dove il silenzio non è da interpretarsi necessariamente come un vuoto, ma piuttosto come uno spazio fondamentale per l’armonia
“On parlar profondo come un basar”, sosteneva Andrea Zanzotto alludendo al fatto che la lingua tra- scende la lingua, è corpo universale che comprende le sensazioni, le emozioni, il pensare e anche ciò che non è sentito e pensato. A questo potremmo poi aggiungere che nella civiltà contadina la parola era una sorta di Seinsstiftung, la casa dell’essere, dove nel corso dei secoli si è formata la memoria collettiva, che non è semplice somma delle memorie individuali, ma la base fondamentale del vivere delle comunità, incarnata in usi e costumi proposti da re- gole facili come i proverbi. Il proverbio infatti nasce dall’esperienza generazionale, frutto di un’attenta ri- flessione sui fatti e sulle cose che interessano la vita nei suoi vari aspetti: “par fare un proverbio ghe vole cent’ani e i veci i li fasea su la comoda”.
Il proverbio ha uno scopo didattico e morale, costituisce la regola del comportamento individuale e sociale, secondo la concezione della vita, propria delle classi popolari. Veloce, guizzante, spesso in rima per facilitare la memoria, vi si fissa in modo indelebile. Ma accanto ad un “analfabetismo mnemonico” esisteva anche un “analfabetismo mimico” che oltre alla parola coinvolgeva il gesto. Molta parte del patrimonio culturale del mondo popolare si trasmette visivamente: un rito, una danza, un gioco o tutto insieme, come era nel re pertorio del “cantafole”, dove i testi delle “storie” che venivano raccontate, spesso in accompagnamento a basi musicali, non essendo scritti rimanevano aperti e piegabili al gusto dell’e- secutore piuttosto che del pubblico, agli stati d’animo, così che ogni variante poteva essere considerata un testo nuovo. Il Torototela sul tormentone “torototela/torototà”, accompagnato dal suo rudimentale strumento fatto con un bastone, una zucca violina e due fili che sfregavano con un archetto, imbastiva testi supplichevoli di carità e allo stesso tempo di augurio alla famiglia alla quale aveva fatto visita.

L’è rivà el Torototèla l’è rivà el Torototà
co le scarpe tute rote col gilè tuto sbregà
son partito da la Francia e son venuto fino qua
per augurarve bona fortuna e ‘na perfeta sanità.
Siora parona me fago avanti par vegnére a domandar
son el pòvaro Torototèla che domanda la carità
e la varda ne la cardensa che calcossa la trovarà
son el pòvaro Torototèla e calcossa la me darà.
E la varda nel baldachin e la tàia un salamìn
son el pòvaro Torototèla la metà la me bastarà
o se polenta o se pur farina la me daga volentiera
son el pòvaro Torototèla la sachetina gò preparà.
E la ringrassio tanto tanto che ‘n’antrano so’ ‘ncora qua
son el pòvaro Torototèla son el pòvaro Torototà.
“Ve ringrassio tuti quanti par i soldi che m’avì dà
ve protega tuti i santi la salute e felicità”.
A fianco dello sgraziato “refrain” del “Torototela”, però, potevano esserci anche veri e propri cantastorie che, in continuità con la tradizione trobadorica del Basso Medioevo, nei giorni di mercato e nelle fiere divertivano la gente cantando storie prese dalla realtà e dalla cronaca. Altro luogo della cronaca erano i filò, ma nel mondo orale della Bassa Padovana grande importanza avevano anche i canti, usati per alleviare le fatiche nei campi o per scandire il la- voro, o le stesse “fòle” che pur prive di contenuto erano in grado di trasmettere il tempo circolare della vita. In campagna, infatti, dove tutto è destinato a tornare sempre uguale e anche la condizione di vita degli uomini appare immutabile a prescindere dalla loro volontà appare avere un senso la fòla del sior Intento: “Questa la xe la fòla del sior Intento, che dura poco tempo che mai la se distriga, voto che te la conta o che te la diga?”. Sia che la risposta fosse stata “contamela” oppure “dimmela” la “fòla” avrebbe ripreso uguale a prima: “Questa la xe la fòla del sior Intento, che dura poco tempo…”. È in questa oralità semplice, ritmica e ripetitiva che si forma il folklore, ma pure la lingua del folklore, ossia il dialetto.
È quindi necessario tornare all’Alto Medioevo per trovare gli albori dell’oralità, cioè a quando l’arrivo delle popolazioni germaniche alimentò e rianimò la cultura orale a scapito di quella scritta. Il latino (nella variante locale e propria di quell’epoca) non venne del tutto dimenticato né cancellato: si mescolò alla lingua germanica dando vita a una lingua nuova, il volgare. Quando il volgare diventò lingua scritta, per rispondere alle esigenze pratiche di alcune categorie urbane, (quali notai, mercanti e, alla fine, artigiani,) il proletariato urbano, e soprattutto i contadini, resteranno tagliati fuori. L’unico mezzo a loro disposizione restò la lingua, il dialetto, che come un grande fiume per secoli continuò a trasferire da una generazione all’altra conoscenze, usi, costumi e di più: un paesaggio sonoro dove il silenzio non era da interpretarsi necessariamente come un vuoto, ma piuttosto come uno spazio fondamentale per l’armonia.