La peste a Padova nel 1576

La testimonianza redatta dal notaio veronese Alessandro Canobbio permette di fare parallelismi con il presente: dall’uso delle mascherine al il green-pass e dalla quarantena alla teoria del complotto
La pandemia di Covid che ci affligge ormai da più di due anni ha forse indotto qualche lettore a ricordare analoghe malattie epidemiche che hanno colpito l’Europa nei secoli passati, magari sull’onda delle memorie scolastiche della terribile peste del 1630 descritta dal Manzoni nei “Promessi sposi”. Se questa ebbe conseguenze disastrose, non è tuttavia il solo contagio che tra i secoli XIV e XVII ha travagliato le nostre regioni né il solo che ha lasciato una traccia letteraria o artistica del suo passaggio.
Assai interessante come testimonianza, quasi in presa diretta e a tratti molto toccante, è un breve testo dedicato alla peste diffusasi in Padova nel 1576. Si tratta de “Il successo [l’evento] della peste occorsa in Padova l’anno MDLXXVI scritta et veduta per Alessandro Canobbio”, pubblicato a Venezia nel 1577. L’autore era un notaio veronese, che si trovava in città come segretario del vescovo Niccolò Ormanetto, suo conterraneo.
“Ad un tratto si sparse fama, che molti sciagurati seminavano per la città robbe infette, et che con ammorbate untioni avvelenavano gli anelli, et i battitori alle porte”
Egli avvia il suo racconto descrivendone gli inizi, a Trento, già nell’ anno precedente, e da qui la sua diffusione a Verona e Venezia. Le altre città si blindano, chiudendo gli accessi agli estranei. Si poteva allora viaggiare con una sorta di green pass (fede di sanità) ma l’evidente superficialità con cui venivano elargiti e controllati questi permessi non impedisce che la peste entri a Padova (nell’aprile del 1576). A giugno è già tanta la sua virulenza che si annullano sia la processione che la fiera del Santo. Il terrore si diffonde e con esso la teoria del complotto: “Ad un tratto si sparse fama, che molti sciagurati seminavano per la città robbe infette, et che con ammorbate untioni avvelenavano gli anelli, et i battitori alle porte [delle case]”. L’ autore taccia di superstizione tali voci e, per tutto il testo si sforza di essere fedele a scienza (poca, all’epoca) ed esperienza, contestando da subito che la pestilenza provenga da nefaste congiunzioni astrali o dall’aria cattiva. Egli presume piuttosto che “il [suo] veleno è così acuto e così sottile che invisibilmente passa da un corpo all’altro” e deve constatare presto l’inefficacia dei rimedi proposti dalla medicina del suo tempo: palle e spugne intrise di profumi da portare al naso, cipolla cotta sotto la cenere e lardo da porre sopra i bubboni, la teriaca (antichissimo ed onnipotente rimedio), i salassi con le sanguisughe… Unica misura che mostra di essere efficace è il confinamento degli ammalati, in casa o presso il Lazzaretto.

Il lazzaretto di Padova, oggi scomparso si trovava presso il canale delle Brentelle. La sua costruzione venne iniziata nel 1533 ed è qui che vennero trasportati gli ammalati durante la peste del 1576
Era questo un edificio, oggi scomparso, che si era cominciato a costruire fin dal 1533 presso il canale delle Brentelle.
A Padova, tra giugno e luglio, si cominciano a trasportare qui gli ammalati: compaiono le carrette ed i beccamorti “i quali apportano con la loro vista infelice augurio et universale tristezza”. La città si svuota: si chiudono tribunali, mercati e negozi; chi può (nobili, mercanti, ma anche medici e farmacisti, gli artigiani più ricchi…) corre a rifugiarsi nelle ville del contado e sui colli – “per la città di continuo camminava dappertutto il silenzio giorno e notte, e non lasciava spazio ad altro che pianti, lamenti e sospiri”. Le case degli appestati vengono “igienizzate” e decontaminate con metodi drastici, bruciando tutti i mobili e le masserizie gettate in strada dalle finestre e poi affumicandole, sicchè Padova è avvolta per mesi in un odore nauseabondo.
L’autore abitava all’ incrocio tra le attuali via Vescovado e via Barbarigo, l’una in direzione di porta San Giovanni e le Brentelle, l’ altra verso Santa Maria in Vanzo ed il porto, presso Piazza Castello, da cui gli ammalati venivano portati al Lazzaretto via acqua. Gli capita, perciò, spesso di osservare i trasporti degli appestati e descrive gli strazianti spettacoli che gli si presentano con accenti di grande pietà e partecipazione umana.
“Prima compariva, un po’ avanti, una guardia che diceva: attenti a costoro, e costringeva i poveretti ad andare in mezzo alla strada come fossero bestie…poi si vedeva un misero padre carico di alcune povere cose per uso personale, o per coprirsi o per cambiarsi, con due figliolini in braccio, uno ammalato, l’altro sano e allegro che, senza capire, baciava il misero padre che mandava profondi sospiri dal petto e dai cui occhi uscivano abbondanti lacrime; ai suoi piedi due o tre figliolini che a causa dell’età e del male a stento riuscivano a formare i loro piccoli, lenti passi e che chiedevano al padre un aiuto che lui non poteva dare…Lo seguiva da vicino la moglie con un fagottino simile ed un infelice figliolo al petto che, penso, tirasse per nutrimento più sangue che latte…Chi osava entrare in città per necessità ci passava a cavallo il più velocemente possibile, con la testa protetta, gli occhi bassi e il naso e la bocca ben avvolti e racchiusi nel lembo del mantello”.

A Venezia la fine della peste del 1576-77 viene celebrata ancora oggi con la Festa del Redentore. Il 4 settembre del 1576 il Senato della Serenissima commissionò ad Andrea Palladio la realizzazione di una chiesa intitolata appunto a Cristo Redentore, quale ex voto per liberare la città dalla peste, e la prima pietra fu posta il 3 maggio 1577. Il 20 luglio del 1577, per festeggiare la fine della peste, fu costruito per la prima volta un ponte di barche per raggiungere il luogo in cui stava sorgendo la Basilica ed ebbe luogo la prima processione. La tradizione continua ancor oggi la terza domenica di luglio.
Ai primi di settembre i morti sono 80-90 al giorno, Il Consiglio cittadino decide misure più stringenti: tutti gli appestati sono ricoverati al Lazzaretto, i sospetti sono alloggiati in casette di legno (circa mille, secondo Canobbio) che sono state rapidamente realizzate all’esterno di quello, la roba infetta trasportata in una capanna dove sarà sanificata ed inventariata. Il contagio rallenta. Ma, come la causa dell’epidemia era stata ascritta alla volontà divina, così anche la sua cessazione è interpretata come effetto della divina misericordia e di un fatto miracoloso: presso la corte del Capitanio c’era un’immagine della Madonna alla quale il popolo accorreva per chiedere grazie ed alla cui intercessione viene attribuita la guarigione del Capitano veneziano Alvise Zorzi. Di fatto, staccato l’affresco dal portico dove si trovava, esso viene trasferito con una solenne processione ai Carmini (dove tuttora si trova) il 12 ottobre. Il numero dei morti cala progressivamente e tra il febbraio ed il marzo del ’77 la pestilenza può dirsi finita.
Canobbio calcola che in tutto ci siano stati 12.388 morti tra città e territorio, a fronte di una popolazione che era, per Padova, di circa 35.000 abitanti e di circa 140.000 per l’intero suo territorio.

Parte bassa della grandiosa pala absidale (olio su tela di metri 6.84 x 3.94 quasi 27 metri quadrati) opera di Gianbattista Tiepolo, conservata nel Duomo di Este. Rappresenta la preghiera di Santa Tecla, patrona di Este, che raccolte le sofferenze e le angosce della città atestina e invoca a Dio Padre la liberazione dalla peste del 1630-31