Un paese di fiume che assomigliava ad un paese di mare

Sono di ieri i ricordi di un tempo in cui l’uomo faceva parte del paesaggio. Oggi essersi abituati ai mondi virtuali, forse, significa aver perso contatto con l’orizzonte reale
Dove inizia il fiume? Dall’argine? Dalla sponda dove bagna l’acqua? E quando è in magra e il fondo diventa terra cosparsa di scarpe vecchie, bottiglie sporche, pietre, rifiuti: sono essi fiume? Quanta acqua serve per esserlo? Quanto di quel fondo deve rimanere inaccessibile, a chi è dotato di gambe, per restare fiume e non terra bagnata calpestabile?
Io credo sia quell’anima nera e profonda, fredda, carica di corrente, a trattenere il suo segreto, il suo nome, le sue ultime sembianze. Non ci si arriva mai a piedi al fiume, in quel metro che sta più in là c’è la vita insondabile e segreta che lo rende diverso dall’essere fatto di sola acqua.
Il fiume è sempre stato là, nel suo rotondo e verde gomito d’argine che abbraccia due lati del paese. Un corpo idrico in mezzo ad altri corpi formava una comunità perché, prima che arrivassero le paure legate all’inquinamento o quei timori che progressivamente si sono estesi a tutti i luoghi poco frequentati, con l’Adige il mio paese aveva confidenza. L’acqua, certo, aveva già trascinato via gli ultimi nomi di mestieri appena morti, come il passatore del traghetto, il cavatore di sabbia, il mugnaio con il suo mulino galleggiante. Erano già evidenti i segni di un passato ormai svuotato, beccheggiante, con storie alla deriva di uomini che per professione erano stati in mezzo alla corrente, avevano assunto le forme dei luoghi poco frequentati, avevano occupato spazi ai più sconosciuti, raggiungendo angoli che non avevano nomi. Perché il fiume, salvo per pochi elementi fissi, è acqua e non è possibile farci sopra una geografia. Mestieri solitari che rendevano i loro interpreti quasi invisibili, lontani e allo stesso tempo prossimi come i segreti, complici di chi non si azzardava a rivelarli. Il fiume dava, l’uomo prendeva e non diceva niente a nessuno. Del resto l’Adige non possiede il mito del Po e nemmeno la retorica del Piave, l’Adige è operaio e lavorava in silenzio.
L’acqua aveva già trascinato verso il mare gli ultimi nomi di mestieri appena morti, come il passatore del traghetto, il cavatore di sabbia, il mugnaio
Ma d’estate il fiume sapeva anche divertire e farsi festa. Nei mesi caldi quando il corso perdeva portata, proprio appena più a valle del gomito che abbraccia i due lati del paese, ogni anno, riaffiorava il deposito di sabbia grigia e grossolana che la corrente accumulava là dove la sua forza era minore. Una lingua asciutta e pulita che prolungava la sponda verso il centro del corso, coronava piccole isole fluviali piene di un verde inaccessibile, che solo in questa stagione si ricollegavano al “continente”, e l’acqua tutt’intorno sprofondava gradualmente. Proprio come una spiaggia che noi chiamavamo “giaron” e che alcuni anni era grande, ma a volte anche grandissima, tanto da riuscire ad essere convincente come un nuovo paesaggio. Un ultimo luogo, un nuovo angolo che si aggiungeva al resto del paese e ci offriva la possibilità o l’illusione di sentirci come un paese di mare.
Ma forse non era un’illusione perché veramente quella striscia di sabbia ci portava ad avere abitudini diverse dagli altri. A luglio e ad agosto, in giro per il paese si andava con il costume da bagno sotto ai pantaloncini corti, le scarpe diventavano fuori ordinanza e si stava in ciabatte. Era un modo per essere sempre pronti, perché qualsiasi pretesto portava al “giaron”. Non ci si dava neanche appuntamento, si andava là, al fiume qualcuno si trovava sempre. Nei quindici giorni di Ferragosto, poi, si poteva anche arrivare a respirare la stessa aria disinvolta e mondana delle località balneari, il “giaron” diventava la terza piazza del paese, lì si concentrava la vita, scappando dall’afa si impegnava il tempo. Il sabato e la domenica erano i giorni in cui, come in tutte le spiagge, si raggiungeva la calca, il picco di presenze. Giovani, meno giovani, famiglie intere srotolavano gli asciugamani sotto ombrelloni sdruciti e sbiaditi o ripari di frasche per trascorrere il pomeriggio. Ed era proprio la gente ad aggiungere un sentimento nuovo a quell’angolo di paese, anzi a togliere l’anima selvatica e pericolosa che emanava nel resto dell’anno e a farlo diventare un luogo del divertimento. C’era chi rifiutava il mare vero per la spiaggia dell’Adese, convinto che non ci fosse un altro posto come questo, un posto in cui non sentirsi un ospite, un turista, un visitatore, uno di passaggio che si adatta alle regole della spiaggia chiedendo permesso. Non aveva proprietari o gestori l’Adige, era nostro di giorno e anche di notte e le mie estati in paese sono piene di ricordi balneari: bagni, tuffi, gite in barca e giovani seduti sotto alla luna, attorno ad un fuoco, anche se eravamo solo campagne.
Il “giaron” alcuni anni era grande, ma a volte anche grandissimo, tanto da riuscire ad essere convincente come un nuovo paesaggio
Ma oltre alla spiaggia c’era l’acqua e il suo fascino legato al pericolo e all’iniziazione. Perché il fiume anche uno stato emotivo, un sentimento che ne inspessisce il corpo, ne crea il mito o la statura naturale. E l’averne timore era connesso al suo nome. Timore, non paura, perché quella porta a fuggire dal confronto, ma timore – ti, ti – come timidezza, da superare. Aveva molti morti sulla propria coscienza quell’acqua, aveva ucciso indistintamente i tedeschi durante la ritirata, che su imbarcazioni di fortuna avevano provato a raggiungere la nostra sponda, ma anche innocenti, bambini, una volta cinque, tutti fratelli. E per capire che il fiume possedeva una forza terribile bastava immergervisi. Raggiunta l’altezza delle spalle la corrente spinge e spinge da non lasciati in piedi. Non è come in piscina, da dentro, la sponda corre e scivola via da davanti agli occhi come la campagna dal finestrino di un treno.
La prima volta fa paura, la seconda anche. E pericolosa è anche l’acqua stessa: dall’odore organico di natura, pesante e sotto lo sfioro già con il buio e il freddo che proviene dal letto profondo. E come se sotto ci fossero delle finestre aperte, le percepisci in gradi centigradi le buche, gli avvallamenti, il letto che va giù a trovare i suoi abissi. Le cosce e le piante dei piedi scalze lo sentono. Dove i raggi del sole non penetrano, l’acqua ha temperature sinistre. E poi c’è il fondo, il letto lunare scavato dal corso in canyon nell’argilla scivolosa come la pelle di un pesce, la rassicurante sabbia, la piccola ghiaia, l’infida e puzzolente melma dei limi leggeri, sospensioni, che rinsaccano e depositano dove la velocità dell’acqua quasi si ferma. Lì il piede affonda in un tiepido calore biologico che sa di malattia. “Mai andare dove l’acqua è ferma, perché lì c’è la pipì dei topi”, la leptospirosi era uno dei timori da non sottovalutare.
I pericoli visibili avevano nomi, perché i paesaggi sono sonori e rispondono alla voce di chi li sa chiamare
Dell’inquinamento, seppur forse maggiore di adesso, non avevamo consapevolezza. Il timore era per i “bovoli”, i mulinelli d’acqua che trascinavano sul fondo, le infide “buse”, le “ucce”, i pali di larice conficcati nel fondo, resti di antichi sostegni a manufatti che il tempo aveva divorato lasciando punte acuminate rivolte all’insù, le sabbie mobili. Ecco i pericoli visibili avevano nomi, perché i paesaggi sono sonori e rispondono alla voce di chi li sa chiamare. Ma forse molti di questi pericoli erano solo leggende, utili, anzi indispensabili, per farti mettere sul naso gli occhiali del timore con cui guardare il fiume nella sua complessità. Un punto di vista e uno stato di attenzione che, esteso verso l’altrove, poteva essere buono anche per attraversare la corrente della vita. Poi la natura del fiume è come quella della montagna, se la conosci puoi goderti anche le sue insidie, “se impari a nuotare in Adige, non c’è acqua che ti possa annegare”. E conoscere l’Adige era un modo per entrarne nella sua anima, per mettere a frutto quel privilegio che possedevamo e che soprattutto d’estate diventava paese, il nostro paese, un paese di fiume che assomigliava ad un paese di mare.
Oggi in Adige non ci si va più. L’inquinamento è diventato un timore che moltiplica e supera tutte le insidie proprie del fiume. L’inquinamento ha cambiato la sua acqua ma ha cambiato anche noi. Gli spazi aperti ci spaventano perché evidentemente abbiamo perso la confidenza con il paesaggio, nella natura manca l’esperienza di tutti i giorni di quando eravamo “adesanti”: pescatori, cavatori di sabbia, mugnai, cavallanti o anche solo bagnanti. Distante dall’acqua abbiamo perso familiarità con i suoi luoghi e anche con sui racconti, il fiume è come se non esistesse più. Il corpo idrico è diventato un corpo estraneo, per la gente è un “non luogo”, per questo il paese si è ritirato dalle sue sponde. Presente quando la signorina al mare prende la prima onda sopra le ginocchia? Ecco, così, con una smorfietta, ci si ritrae.