Neve e Gelo un tempo certezze dell’inverno

Il rigore degli inverni del passato ancora si racconta con le forme dell’epica. Aneddoti e strategie per resistere al freddo oggi sembrano gesta di un popolo lontano, ma del resto lo scorrere delle stagioni si misura anche così
“Non la me piase pì, desso, la neve.
No la fa tenpo de vegner da l’alto
ch’el bissabòa del trafico el la beve
e’l la inpastròcia grisa so l’asfalto.
Na volta sì la jera bela bianca! ……..”
Incomincia cosi la poesia: NEVE DE DESSO, di “Nani dal Borgo”, il compianto Mons. Giovanni Rossin da Borgo San Marco di Montagnana. E’ proprio vero, ormai nevica raramente in pianura, ma quando scende è già sporca e poi ci pensano le automobili a fare il resto. Con i trattori bisogna toglierla subito dalle strade e, nelle piazze soprattutto in montagna, vedi mucchi di neve grigia dall’inquinamento, tanto che dici ai figli o ai nipoti: “Non toccarla che è sporca!”
Un tempo, da ragazzi, ci divertivamo a mangiala la neve e a “sbalocarse” e a “sbalocare le tose” e dalle loro reazioni capivi se gli eri simpatico o no. Erano gli SMS di allora!
L’ultima grande nevicata, anche nella “bassa”, è dell’inverno del 1985. Siccome è venuta con il vento, di notte, al mattino ci siamo trovati con un metro di neve in alcuni tratti delle strade, rimanendo isolati. Una copia del mio paese, sposata da qualche anno, non potendo andare a lavorare, isolata come è stata per due giorni, è rimasta a letto per tutto il tempo, e ancora adesso mi dicono con nostalgia: “E’ stato come se avessimo fatto il secondo viaggio di nozze!”. Quando ero ragazzo, nevicava ogni inverno per 30-40 centimetri e, aspettando che arrivasse “el trajòn” del comune a sgomberare le strade, restavamo tutti a casa da scuola. Si faceva il pupazzo di neve, il più grande possibile, fuori dal portone e vicino alla strada per farlo vedere, per poi andare a scaldarsi le mani in cucina. I grandi facevano i sentieri con il badile per andare fino al gabinetto, al pollaio, al porcile se il maiale era ancora vivo, alla legnaia e alla stalla.
Si faceva il pupazzo di neve, il più grande possibile, fuori dal portone e vicino alla strada per farlo vedere, per poi andare a scaldarsi le mani in cucina
Prima dell’inverno i grandi coprivano “el zelese” con il letame e la paglia, perché il ghiaccio non lo rovinasse, ma quando nevicava se ne scopriva una piccola parte per metterci un’”asse da lavare” tenuta sollevata da un lato da un bastone lungo mezzo metro. A questo bastone si legava una cordicella che arrivava fino in cucina. Sotto questa tavola si metteva del frumento o del granoturco spezzato. Le “passarete”, non trovando più cibo perché tutto era coperto di neve, si calavano sotto l’asse per mangiare, e noi ragazzi tiravamo lo spago per catturarle. Venivano accumulate nel cassetto della tavola che si trovava nella stanza più fredda, fuori pericolo dai gatti. Quando erano in buona quantità, venivano pelate di sera e arrostite con salvia e lardo del maiale, accompagnate dalla polenta appena cotta. Gusti mai più ritrovati! A mia discolpa e della mia generazione e precedenti, preciso che allora di passere ce n’erano tante, e noi toglievamo alla natura solo il capitale riprodotto naturalmente.Alla sera venivano in corte dei cacciatori di passere con la rete, chiedevano il permesso per catturarle negli alberi sempreverdi che avevamo all’inizio dei campi, nei pagliai e nel fienile. Anche loro per farsi una mangiata in compagnia, magari con due o tre bicchieri di “Clintòn”.
Gli Inverni erano veramente freddi, in casa l’unica stanza riscaldata dal camino era la cucina. Io dormivo in una stanza in tramontana e mi portavo un bicchiere d’acqua sul “comodino”, nel caso avessi avuto sete. Un mattino, con mio grande stupore, nel bicchiere ho trovato il ghiaccio! Anche l’acqua dei fossi si ghiacciava per spessori di 15-20 centimetri, al punto che si poteva camminarci sopra. Gli operai dei comuni andavano a prendere questo ghiaccio, formando dei cubi con appositi picconi, per portarlo nelle ghiacciaie comunali, dove veniva conservato per l’estate e usato in caso di male ai denti o per curare febbri e infiammazioni o per conservare cibi, prima dell’invenzione del ghiaccio artificiale e dei frigoriferi. Nello stesso modo in cui ci si divertiva con la neve, anche nei i fossi ghiacciati si trovava la possibilità di svagarsi, in quei tempi poveri ma ricchi di fantasia. In un punto particolarmente basso del mio paese, c’era un pezzo di terra con una grande fossa sempre piena d’acqua e alberi di pioppo lungo le rive. La chiamavamo “la peschiera” che d’inverno si trasformava nello Stadio del Ghiaccio.
Gli slittini venivano auto costruiti unendo due tavolette di legno, tagliate curve nella parte inferiore, con altre di traverso. Sotto le parti curve si fissavano due grossi fili di ferro, lucidati con la carta vetrata per scivolare meglio sul ghiaccio
Lì si davano appuntamento i ragazzi più temerari, gareggiando sul ghiaccio con le “sgiavare”: scarpe con i chiodi a testa larga impiantati sotto la suola di legno, o con gli slittini. Gli slittini venivano auto costruiti unendo due tavolette di legno, tagliate curve nella parte inferiore, con altre di traverso. Sotto le parti curve si fissavano due grossi fili di ferro, lucidati con la carta vetrata per scivolare meglio sul ghiaccio. Ci si sedeva su questo slittino, con i piedi appoggiati davanti e ci si spingeva con due bastoni che avevano un chiodo appuntito sul fondo. Si facevano gare a due, tre o quattro slittini, con le eliminazioni e le finali. Verso sera il ghiaccio veniva pulito con le scope, vi si gettavano sopra secchie di acqua per farlo diventare più liscio, per riprendere le gare il giorno dopo.
Durante una di queste gare un nostro amico, con una manovra sbagliata, ha inforcato uno di questi pioppi, che emergevano dal ghiaccio, rimanendovi abbracciato come nei cartoni animati. Per dieci interminabili minuti gli è mancato il respiro e noi, con un’educazione sessuale fai da te, abbiamo pensato al peggio, ma nessuno ne ha mai parlato a casa, tanto meno a casa dello sventurato! I nostri dubbi, anni dopo, si sono sciolti come ghiaccio al sole, quando, una volta sposatosi, ha avuto cinque meravigliosi figli! Della “peschiera” rimane qualche vecchia foto e, a noi, il ricordo di quei tempi vissuti un po’ da incoscienti, ricordi di una giovinezza irripetibile che i nostri nipoti non potrebbero imitare, anche perché i fossi non ghiacciano più e su quel posto sono stati tagliati i pioppi, riportato terra e costruito una bella villetta.