Ma che freddo fa e che faceva!

Gli inverni del ’29, del ’56 e del 1985, sono entrati negli annuari come i più freddi dello scorso secolo, ma il gelido e lungo gennaio del 1985 (- 20°C.) è stato percepito dalla popolazione della Bassa come meno freddo dell’analogo gennaio-febbraio del 1956, che a sua volta fu paragonato al gelo del ’29, grazie al riscaldamento diffuso in ogni edificio pubblico e in tantissime case. Ma come si sopravviveva al Generale Inverno? Ricordi e strategie di un tempo dimenticato
Forse la gelata del 1929 può essere considerata un colpo di coda della “piccola era glaciale”, iniziata a metà XIV secolo e terminata verso metà del XIX, periodo in cui i nostri avi dovevano veramente combattere contro le avversità naturali con armi spuntate e senza cure mediche necessarie per contrastare le malattie invernali. Infatti l’età media di quei tempi lontani si attestava sui 30 anni, causata da un’elevata mortalità infantile e da una vita che si protraeva con difficoltà fino ai 50-60. Molti erano i decessi invernali causati da catarro, e dalla “Febbre maligna”, come si scriveva nelle cronache parrocchiali del tempo. Per i bambini nati nei mesi invernali, per inciso, la mortalità era del 20-30 %, a conseguenza anche dei colpi di freddo patiti per l’usanza di battezzarli a pochissimi giorni dalla nascita, e poi rimaneva alta anche negli anni successivi. Se dell’inverno del ’29 ne sentivo parlare in casa come di un episodio grave, dove anche le vigne morirono squarciate dal ghiaccio, dell’inverno del ‘56 ho vaghi ma diretti (aimè) ricordi! Facevo le scuole elementari, e per recarmi in paese a scuola, a messa e a dottrina, dovevo percorrere in bicicletta quasi tre chilometri di strada malamente inghiaiata. Al mattino uscire dal letto era un’impresa, bloccato come ero da un pesante strato di coperte e da un trapuntino sui piedi spesso una spanna per difendermi dal freddo che nella mia stanza da letto in tramontana era pungente. Le case contadine non avevano riscaldamento come quelle dei signori con un caminetto in ogni stanza; nelle nostre non c’era nemmeno il controsoffitto, ma semplicemente delle sottili tavelle e i coppi sopra, nient’altro! E alle finestre miseri balconi e telai pieni di spifferi con vetri sottilissimi. Una mattina, ricordo perfettamente, l’acqua del bicchiere che avevo sul comodino ghiacciata in superficie. Quindi dormivo a qualche grado sotto zero! La sera, per riscaldare artificialmente il letto, si sa, si ricorreva a la “mùnega” e alla “fogàra de brònze”, oggetti desiderati da collezionisti che evidentemente, per loro fortuna, non li hanno mai usati o se ne sono dimenticati. È come per gli appassionati dei vecchi trattori: è chiaro che non li hanno mai abbastanza usati e subiti come il sottoscritto!
Gli oggetti da riscaldamento dovevano essere manovrati da mano adulta, pena l’incendio del letto e, una volta tolti da mia madre, saltavo sul caldo giaciglio coprendomi immediatamente mentre lei mi rimboccava le coperte, lasciandomi fuori solo gli occhi, a mò di mummia. Prima di coricarci, tutti facevamo la pipi nel vaso da notte, che veniva poi riposto nel comodino o sotto il letto. Nessuno si avventurava fuori di casa, nel cesso in fondo alla corte, con quelle temperature! Con l’amico Piero Dal Prà, una di queste sere, aiutati anche da un bicchiere di Cabernet contadino, abbiamo ricordato il suono che si generava nel vaso da notte in ferro smaltato quando noi maschietti orinavamo: sembrava una lunga nota di violino, con frequenza che partiva in alto e poi digradava man mano che il liquido cresceva nel vaso che faceva da cassa di risonanza. Cose che la modernità ha reso irripetibili! Il lavaggio degli occhi, al mattino, lo si faceva nel catino, con acqua intiepidita dalla cucina economica presente in ogni casa. Dopo la colazione c’era la cerimonia della vestizione! Già sotto avevo addosso le mutande lunghe e la flanella entrambe di lana felpata, oltre agli indumenti intimi; poi indossavo un paio di maglioni, i pantaloni grossi, i calzettoni di lana, le scarpe, la giacca, il paltò, il passamontagna, la beretta, la sciarpa e i guanti! Da lì il detto: Signore fame grande che grosso me fo mi! La bicicletta era attrezzata con due specie di imbuti di pelo di coniglio rovesciato e fissati quasi agli estremi del manubrio dove mettevi le mani, per tenerle al caldo. Lo stesso arrivavo a scuola con i “diàoli” alle mani per il gran freddo, con le ciglia bianche e la sciarpa ghiacciata davanti alla bocca. Era il respiro che si condensava e congelava! Immagini che vediamo in TV di spedizioni ai Poli. Se nevicava, e succedeva ogni anno, eravamo in vacanza fino all’arrivo del “trajòn” comunale che sgombrava le strade coprendole di una poltiglia di neve mista a ghiaia, dove le ruote della bicicletta affondavano specialmente al ritorno da scuola, con il disgelo superficiale dato dal pallido sole. Ma la vita continuava, se pur a rilento.
A casa si approfittava del freddo come conservante per uccidere e macellare il maiale, ma anche le oche e le anatre facevano la stessa fine. La stufa, era accesa da mattina a sera scaldando l’unica stanza dove si svolgeva tutta la vita di quel periodo: la cucina! Li si cucinava, mentre il camino si accendeva alla sera per cuocere la polenta e per produrre “brònze”, li si mangiava, si pregava prima di andare a letto, si facevano gli gnocchi e le tagliatelle, si facevano e si asciugavano i salami che poi pendevano dalle pertiche attaccate alle travi, con gocce di grasso che colavano sul piatto fin che mangiavi la minestra. Li noi bambini facevamo i compiti, si giocava a tombola la domenica sera, si stirava con il ferro a “brònze” e la figlia da marito si cuciva la dote. Anche il dottore, se c’era qualche ammalato in famiglia, visitava al caldo in cucina e gli altri al fresco in tinello. Tutto accadeva in cucina! Ma, una volta alla settimana, sempre d’inverno, un’altra stanza veniva riscoperta come luogo indispensabile perché caldo: la stalla! Era li che, a turno tutti, fuorché i nonni che non si lavavano per evitare malattie invernali, facevamo il bagno nel mastello, con l’acqua riscaldata nella “lissiàra”. Il bagno settimanale si svolgeva sotto gli sguardi placidi e incuriositi delle vacche, alla luce di una fioca lampadina da 15 candele, e con la necessità, a volte, di risciacquarsi se qualche vacca muoveva energicamente la lunga coda spargendo spruzzi maleodoranti tutto intorno. Questo mondo era ritenuto immutabile, come lo è stato per i nostri genitori, per i nonni, per secoli, da sempre. Ma poi è arrivata la televisione, il mondo industriale è entrato anche nelle case contadine con le modernità che la ripresa degli anni ’60 ha reso raggiungibili e in parte irrinunciabili. Le case dotate di servizi e di riscaldamento in ogni stanza, i trasporti con automobili sempre più diffuse e moderne; negli uffici pubblici è arrivato il “Signor venti gradi” per la necessità di quantificare la temperatura ideale per il genere umano senza sprecare. È nato il consumismo indotto e la globalizzazione, l’inquinamento che va di pari passo con il PIL che deve crescere continuamente altrimenti scendiamo in graduatoria mondiale, il denaro virtuale, i bitcoin; e domani cosa inventeremo per renderci la vita più complicata? E ci blocchiamo nelle città se scendono tre centimetri di neve e non sappiamo più come affrontare la vita dall’interno delle nostre potenti SUV 4 WD con navigatore, il meteo in tempo reale e smartphone connessi bluetooth al mondo intero!