Andiamo a mietere il grano, il grano…il grano

Insieme alla vendemmia la mietitura del grano era uno dei grandi riti collettivi della campagna, fino all’avvento delle trebbiatrici. I campi biondi di spighe si riempivano di braccianti, avventizi che ogni giorno partivano con la loro falce da casa. Il “seghetto” o “zerciaro”, infatti, era uno strumento personale, non veniva fornito. Curvo come le schiene di chi lo impugnava, brillava alla luce del sole caldo di giugno. La mietitura era un lavoro massacrante, la durata della giornata lavorativa era variabile, di solito durava fin che c’era luce, eventuali dispense potevano essere decise dal “capo omani” che oltre all’organizzazione delle squadre dei braccianti si occupava di annotare le ore e faceva i conti con il proprietario. Malgrado tutto, però, la mietitura era un momento di gioia. I granai dei signori tornavano a riempirsi insieme alla speranze di ottimi guadagni e anche la madia dei più poveri si rinnovava di sapori e profumi, dopo che per mesi il pane era stato preparato con farine ammuffite ottenute da granaglie di scarto o mal conservate. La mietitura era anche il tempo del lavoro, le schiere di braccianti, rimaste inoperose per mesi o gli uomini in distaccamento impiegati come scariolanti nelle imprese della bonifica, tornavano ad essere impiegati anche se con modalità, talvolta, disparate.
La falce, curva come le schiene di chi la impugnava, brillava alla luce del sole caldo di giugno
La durata dei contratti variava molto: andava dall’anno al giorno; di frequente era anche “la stagione”, la settimana, “il periodo del raccolto”, poteva insomma avere anche durata indefinita. La modalità di pagamento poteva essere a cottimo, a giornata o per campo; mentre il rapporto di lavoro poteva essere a salario, a compartecipazione al prodotto, o con diritti vari; le retribuzioni potevano essere corrisposte in generi, in denaro, miste, col vitto o senza, col vino o senza. Oltre a tutte queste differenze bisogna considerare che il corrispettivo variava molto a seconda del sesso e dell’età; dal tipo di lavoro svolto e delle stagioni. Appunto quella estiva era la più remunerativa. Secondo i dati riportati nell’Inchiesta Jacini, promossa dalla Camera dei deputati il 15 marzo 1877 passata alla storia con il nome del presidente della commissione d’inchiesta, appunto Stefano Jacini, che l’aveva fortemente caldeggiata per conoscere le condizioni dell’agricoltura in Italia verso la fine dell’Ottocento, gli uomini percepivano dai 60 e 80 centesimi di lira al giorno nel periodo invernale, mentre potevano spuntare paghe giornaliere che raggiungevano una lira e una lira e mezza d’estate ed era appunto nei periodi della mietitura che i salari raggiungevano gli importi massimi, anche tre lire al giorno. Tuttavia si trattava di un periodo molto breve, di solito 8 giorni. Il lavoro di donne e bambini veniva richiesto solo nei momenti di picco. Le donne ricevono una paga compresa tra la metà e i tre quarti del salario di un uomo, mentre i bambini tra un quarto ed un mezzo. Erano queste opportunità, insieme ad altri lavori svolti dalle donne a domicilio, a integrare il bilancio famigliare.

Una vita di stenti, bilancio famigliare dei braccianti
(Composizione della famiglia: un uomo, una donna, tre fanciulli)
Entrate:
Giornate lavoro agricolo dell’uomo:
150 estive (1,10 lire) + 20 invernali (70 cent.) 179 lire
Giornate lavoro agricolo della donna:
90 estive (80 cent.) + 10 invernali (50 cent.) 77 lire
Lavoro al telaio (uomo) 28 lire
Filatura a mano (donna) 15 lire
Totale entrate 299 lire
Uscite:
Granoturco 160 lire
Altre spese di alimentazione 102 lire
Affitto casa 30 lire
Vestiario e calzature 47 lire
Consumo attrezzi 7 lire
Medicine e spese straordinarie 5 lire
Totale uscite 351 lire
(Fonte: MAIC, Notizie intorno, cit. III, pp.624-625, 650-651, tratto da A.Lazzarini, Fra tradizione e innovazione…, cit.)
Il saldo del bilancio famigliare, quindi, era nella maggior parte dei casi negativo e appunto alla mietitura erano legate le opportunità di maggiore entrata. La necessità di eseguire con la massima rapidità certe attività agricole portava i proprietari terrieri a reclutare manodopera supplementare, appunto tra le fila dei braccianti, e tra quest’ultimi la possibilità di spuntare un salario dignitoso, seppur per pochi giorni. Nell’Ottocento esistevano due diverse categorie di braccianti: quella dei salariati fissi (“obbligati” annui) e quella degli avventizi (“disobbligati” giornalieri). I primi poco numerosi potevano contare su un lavoro continuo che portava ad tenore migliore, la seconda categoria, invece, molto più numerosa, comprendeva braccianti che non riuscivano a lavorare tutto l’anno e vivevano quindi in condizioni più difficili, concentrandosi alla ricerca di occasioni di impiego. Erano questi a distribuirsi in lunghe file lungo il fronte del campo e ad intonare ritmati canti per tenere lontana la fatica, un modo per distrarre il pensiero dallo sforzo corporeo, ma in realtà il loro disagio durava di anno in anno.
La falce è diventata uno dei simboli della lotta contro lo sfruttamento
La fame era una costante, e la morte per stenti non era un effimero spettro, aveva invece la concreta consistenza della realtà quotidiana. Soprattutto tra la popolazione più giovane. Non a caso proprio la falce è diventata uno dei simboli della lotta contro lo sfruttamento ed è nelle zone di Mantova, Ferrara e Rovigo, nelle quali la presenza di braccianti è rimasta particolarmente alta anche nel Novecento, nasceranno i primi moti di protesta o i moti contadini come quello de “La Boje” del periodo 1882-1885. Siamo all’inizio della nascita dei movimenti organizzati, nell’ultimo decennio del secolo i tentativi di organizzazione sindacale, cooperativa e politica andarono allargandosi e le idee socialiste cominceranno a far presa fra i lavoratori. I primi parziali successi e le esperienze di lotta compiute sul finire dell’Ottocento avranno esito positivo soltanto nel secolo successivo. Durante l’età giolittiana, anche grazie al minor ricorso alla repressione aperta, si susseguirono ondate di scioperi, significative elaborazioni sindacali e conquiste in termini di salario, orario, condizioni di lavoro.
Il rito, le date, lo spirito del grano
La mietitura stava tra due santi: Antonio da Padova e Rocco. Tra il 13 giugno e il 16 agosto, infatti, i lavori nelle corti dovevano essere completati.

Il periodo della mietitura iniziava con la data di Sant’Antonio da Padova (13 giugno). Il giorno dopo la “messa dei mietitori”, a seconda della stagione, partivano i lavori

Con la data di San Rocco (16 agosto), invece, i lavori erano conclusi e si teneva la Galzèga o Gansèga o ancora Galdèga
Il giorno dopo la “messa dei mietitori”, a seconda della stagione, partivano i lavori in campagna che si sarebbero conclusi con la “galzega”, “ganzèga”, “galdega” che a seconda delle provincie cambiava nome ma allo stesso modo, con una cena oppure un pranzo, definiva tutti i lavori collettivi. Già nel ‘500 la “galzega” era prevista come diritto consuetudinario a favore dei lavoratori. Al proprietario era fatto obbligo di offrire il cibo a chiusura dei lavori in campagna. Non mancava che alle tradizionali pietanze venisse offerto un salame preparato e tenuto da parte per l’occasione, battezzato come fosse uno di famiglia: la “zia” o la “nona” era una sorta di cibo rituale, forse l’equivalente delle libagioni dei riti pagani, tanto per rendere l’idea di quanto lontana nel tempo fosse l’origine delle consuetudini agrarie. Questa sorta di diritto consuetudinario, tuttavia, nei primi anni del ‘900 andò progressivamente sparendo e cessò del tutto con i contratti agrari del ’22. Rimase come tradizione fino all’avvento della meccanizzazione dei lavori in campagna, quando le trebbiatrici presero il posto dei mietitori e la mietitura da lavoro rituale e collettivo divenne una delle tante faccende che un operatore sbriga da solo, seduto al volante del proprio mezzo. La fine dei grandi riti della campagna, infatti, arrivò con il frastuono dei motori ma non solo con questi. La civiltà contadina e insieme ad essa tutto l’insieme di riti che accompagnavano le fasi dei lavori in campagna, sono state rimosse anche nell’intimo, a livello personale. Rigettate, forse per l’odore di profonda povertà che ricordavano o peggio ancora per la profonda ingenuità di cui erano testimonianza. Nell’epoca dell’industrializzazione e dei suoi nuovi riti, la semplicità agreste ha dovuto accontentarsi di spazi marginali come testimonianza anacronistica di un mondo che non aveva più motivo di esistere. Il calendario dei santi e delle processioni perse d’importanza e insieme ad esse l’intero repertorio dei riti d’auspicio che per secoli erano stati il legame che teneva stretto l’uomo alla terra e al cielo con trepidazione e rispetto, perché temendo entrambi allo stesso modo, per eccessi e per carestie, al rito l’uomo affidava la sua ingenua ma profonda speranza.
Al lavoro, dunque, si coniugava il rito o il simbolo, volti entrambi a vincere gli influssi maligni e a tener lontano tutto ciò che era indesiderato, magari anche solo fuori dai confini comunali, così come scongiuravano i partecipanti alla processione delle “rogazioni” di San Marco (25 aprile) che a tappe percorrevano i termini municipali, oppure fuori dal proprio campo o orto grazie ai poteri apotropaici conferiti alle “crocette” di legno portate a messa dai bambini, benedette il 3 maggio e poi conficcate sulle capezzagne.

Masi, la cerimonia dell’alleanza con l’acqua che si teneva il giorno dell’Ascensione, il giovedì dopo la 6° domenica di Pasqua
Il giorno dell’Ascensione (il giovedì dopo la 6° domenica di Pasqua), poi, si rinnovava in quelle comunità attraversate dai fiumi l’alleanza con l’acqua, per tenere distanti siccità e rotte paurose. Dalla riva, oppure dalla barca, il curato benediceva e gettava una “palla di cera” in acqua a simbolo di alleanza, di matrimonio, come del resto il doge di Venezia faceva gettando tra le onde un anello d’oro nello “sposalizio con il mare”. Dopo la mietitura, generalmente a luglio, si teneva la “festa del ringraziamento”. Ogni “padrone” portava sulle spalle a messa un covone, affinché fosse benedetto. La popolazione non contadina, che non aveva covoni, si ingegnava con un mazzo di spighe guarnito con nastri e fiori e poi messo sull’altare della Madonna. Era un modo per ingraziarsi la prosperità del raccolto anche per l’anno successivo. I santi, insomma, tenevano a bada gli spiriti che abitavano la campagna e a volte toccava agli stessi uomini affrontare l’intangibile. Lo spirito del grano, ad esempio, veniva ucciso ogni anno. Con il taglio dell’ultimo mannello di frumento veniva accoppato questo spirito cha a seconda dei comuni aveva forma di “cagna”, di volpe, di oca, di lepre, o di tacchino. Su chi lo tagliava per ultimo ricadeva la sfortuna e per questo in prossimità della conclusione dei lavori in un campo si ingaggiavano gare di velocità per evitare il triste primato. Ma l’ultimo c’era ogni anno e a questo veniva dato un fantoccio di paglia con le sembianze dello spirito, fornito di cipolle, simbolo della sfortuna che avrebbe portato su di se per un itero anno. Contro la sfortuna funzionava anche la goliardia, gli scherzi avevano funzione iniziatica per i giovani lavoratori ma erano anche un espediente per tenere alto il morale della compagnia: capitava ogni tanto che a qualcuno, magari più sprovveduto di altri, venisse chiesta la cortesia di andare a prendere lo “strejapajari” e il malcapitato invano girasse a vuoto in cerca di un qualcosa che invece era uscito dalla beffarda fantasia del guascone di turno, per il sollazzo di tutti.
Questo articolo è stato realizzato grazie alla consultazione del libro “Ganzèga” e all’intervista dei suoi autori, Chiara Crepaldi e Paolo Rigoni

Vittorio Pozzato
Vittorio Pozzato, detto Lustro. Girovago. Di professione aveva fatto il paradore, il conduttore bovini verso i mercati annuali di Rovigo, Ferrara, Adria… Poi, tramontata la sua professione era rimasto sulla strada dormendo in ricoveri di fortuna e vivendo di elemosina. Nella sua follia aveva assunto su di sé il ruolo di esorcista, di capro espiatorio, dell’ultimo mietitore colpevole di aver ucciso lo spirito del grano sotto forma di oca o tacchino. E infatti tutti lo apostrofavano quando passava per le strade con il grido di: “Lustro, mòla cl’òco!!! Lustro Mòla cla pitóna!!!”. Quando giungeva nella corte (morì nel 1986) improvvisava il solito rituale: intonava una strana nenia e contemporaneamente iniziava a battere vigorosamente su un recipiente di latta con lo scopo evidente di scacciare il male. Figura liminale, triste, sofferente, dolorosa. L’ho conosciuto personalmente. Non l’ho mai visto ridere
Paolo Rigoni
La Gansèga
La Gansèga la ièra ‘na roba granda!
Quando che ca se fnéva de portar in corte le faje,
ca se fasèa di cavaiuni élti come el campanile,
in t’l’ultimo caro a s’metea un faiolo de cana, un frescòn…’na strassa…
in mancansa d’altro ‘na camisa vecia,
ca volèa dir che s’iera finì.
E po’ se tapava la trebia.
Ma com’ c’ho dito la iera ‘na roba granda
parchè a gh’ièra dle sinquanta persone in corte tra omani, done e fiòi.
A se tacava ala prima metà d’ giugno
e se ‘ndaseva ‘vanti fin anca in agosto.
E defati par la fiera de San Giacomo el vintisinque d’luio
i sospendèa l’ultimo quarto
parchè la gente la podéesse andare alla procession
e po’ ala festa da balo.
Finì de trebiare, a fasìvino bagolo…
A s’ metìvino d’accordo:
uno ‘na roba, uno n’antra, uno ‘st’altra…
vin clintòn, la pansèta, l’ossocòlo…
a preparàvino sull’ara e magnàvino in compagnia.
E po’ l’armonica e balare!
Ma l’ièra vin più che altro…
A s’ciapava de cle simie che ‘na volta el guardiàn
ch’el fasèva la guardia ale cavale de formènto sul sél’se
el s’è indormensà cargo com’ ch’el ièra sul cassòn del camio
e el s’ha desdrumissià la matina dopo ch’el camio el ièra sa par strada.
Attilio Lucchiari di Bellombra, tratto da “Ganzega, ritualità e alimentazione popolare nel Basso Veneto, di Chiara Crepaldi. Intervista del prof. Paolo Rogoni
Il lavoro
Il Lavoro
Gli uomini si radunavano sulla grande aia, in attesa che il “capo omani” indicasse loro quale campo era da mietere. Il lavoro non partiva prestissimo, la guazza mattutina era già evaporata quando le falci iniziavano a mietere e l’ombra del grande cappello di paglia si allungava sugli steli che si presentavano alla mano. I piedi nudi venivano punti dalle stoppie e dagli insetti molesti. Davanti una distesa di spighe e steli da recidere e legare con i “balzi” (legacci in erba palustre) in covoni che venivano ammonticchiati in “crosette” o “faje” sempre in numero dispari e sistemate secondo un preciso ordine: quattro gruppi di tre covoni, in croce, più uno di cappello (el galo) che, in caso di pioggia avrebbe impedito all’acqua di penetrare e bagnare le spighe. Le “crosette” stazionavano anche 10 giorni in campagna prima di essere raccolte nel “cavajon” che più tardi si sarebbe trebbiato.

La falce
La falce è entrata a far parte della dotazione degli strumenti dell’uomo ben prima che venisse praticata l’agricoltura. Sembrerebbe una contraddizione ma si spiega con il fatto che l’uomo iniziò a cibarsi del grano ben prima di imparare a coltivarlo, semplicemente mieteva quello che nasceva spontaneo. Ovviamente con le prime rudimentali falci. I primi rinvenimenti di pale a falce risalgono al periodo epipaleolitico (18000-8000 a.C.): di varie forme, dalla lunghezza di 2 cm circa con un bordo frastagliato, fatte di selce, rettilineo e utilizzato in più di un movimento di taglio. Le falci più antiche sono in realtà dei coltelli messori (vale a dire usati per mietere). Il loro uso è testimoniato dal sickle gloss, la caratteristica lucentezza prodotta sul taglio della lama dallo sfregamento dei granelli di silice contenuti nello stelo dei cereali. I coltelli messori dritti o leggermente ricurvi, senza soluzione di continuità tra manico e corpo, compaiono per la prima volta in Palestina, in Egitto, in Mesopotamia e nei Balcani. La falce messoria a lama ricurva e impugnatura distinta è attestata in Mesopotamia fin dal V millennio a.C. e in Egitto dalla I dinastia (circa 3000 a.C.). Nell’Europa del Neolitico e dell’età del Rame predominano i coltelli messori con lama formata da un solo elemento in selce incastrati nella scanalatura e fissati con mastice. La falce è stata poi perfezionata nella manualità, fino ad arrivare al periodo del Bronzo in cui le falci avevano un loro manico.
Il male della falce – La “verta”
Venti-venticinque giorni di mietitura, per diverse ore al giorno, inevitabilmente portava a tendiniti o infiammazioni dei nervi del polso che genericamente tra chi ne era affetto venivano definite “la verta”, la cura era affidata ad una prassi abbastanza semplice quanto inefficace: il giorno di San Rocco veniva benedetto un laccio di color rosso (saso) da indossare al polso dolorante.