Il mito della campagna, l’idea bucolica di una vita sana e felice

Capita di sentire qualcuno, ogni tanto, rimpiangere il passato, ma solo perché non conosce il passato
“Si stava meglio quando si stava peggio”. In tempo di crisi è legittima qualche reminescenza del passato, oggi poi: in un mondo che pare capovolto incontrare i valori del mondo contadino, la semplicità della vita rurale, le piccole cose “fatte bene” possono essere l’antidoto al “logorio della vita moderna”. Non è raro che ai ritmi frenetici della contemporaneità vengano anteposti i cicli stagionali della vita bucolica e giustamente, verrebbe da dire, ma attenzione a non scadere nell’eccessivo romanticismo. Potrebbe far male! Creare un’immagine troppo “allegorica” della campagna, associare la vita beata del passato all’ingenuità salutistica della vita rustica, significherebbe riprodurre gli stilemi che il mondo pubblicitario usa per reclamizzare i propri prodotti industriali: i mulini bianchi, le ricette della nonna … Insomma ci dovremmo far convinti che il nonno quando, come un mantra, ripete il rammarico per il passato perduto, alluda più alla sua giovinezza che all’età storica in cui ha vissuto. Perché non c’è proprio paragone con “il logorio della vita moderna”.
Prima si stava decisamente peggio. Quanto peggio? Basterebbe prendersi in mano qualche dato un po’ più solido del ricordo del nonno, per capire che con l’Arcadia Felix non c’era niente da spartire. L’arciprete di Merlara, don Giovanni Morello, ad esempio, lascia registrata tra le pagine del suo registro parrocchiale, nel novembre 1853, una breve cronaca del quale fu testimone.
“Principiano a farsi sentire le conseguenze funeste della scarsezza del raccolto di quest’anno. Le continue piogge che durarono precisamente fino al 20 giugno, impedirono che si potessero seminare le terre basse e vallive, ed anche quelle alte furono seminate a formentone in mezzo all’acqua e al fango. La raccolta del frumento fu scarsissima e tutta piena di zizzania. Una siccità terribile cominciò dopo il 20 giugno e continuò fino a quasi tutto il mese di agosto, per cui il formentone seminato nel fango e nell’acqua restò impietrito e si ebbe quasi nessun raccolto. L’uva ebbe la malattia già incominciata fino dal 1851 e andò tutta perduta. Nel corso della stagione estiva si dovettero soccorrere i poveri con i fondi dell’Istituto elemosiniere”. Più che di una cronaca si tratta di un’istantanea, una foto, che lascia sullo sfondo tutte le tensioni politiche che contornano la vicenda, che pure andrebbero inserite nel quadro del tempo, e ci racconta che c’era la fame ad aspettare le persone alla fine delle stagioni andate storte. L’arciprete Morello parla di Merlara, ma è un esempio che può essere esteso a tutta la Bassa Padovana e, tra l’altro, non solo all’anno 1853. Infatti, le calamità di quell’anno non sono le sole cause della povertà diffusa del tempo.
La miseria, invece, era endemica nelle nostre campagne fino al ‘900 inoltrato e la causa sarebbe più giusto ricercarla nella stessa struttura economica legata alla terra, che allora occupava l’80% della popolazione ma era in mano a pochissime persone. La campagna del tempo, infatti, era in larga parte costituita dal latifondo, poche persone detenevano la maggior parte delle terre coltivabili: “Gli Zara avevano proprietà a Codevigo, Pontelongo, Piove e Bovolenta. A Corezzola la tenuta del duca Melzi d’Eril copriva il 90% del paese. Nel Conselvano la grande proprietà rappresentava all’incirca l’80% del territorio. Si segnalavano tenute con un’estensione di 700 ettari ad Arre e di 400 a Pontecasale. A Bagnoli di Sopra la proprietà più estesa (circa 600 ettari) era quella del principe D’Aremberg, a Sant’Elena il conte Miari possedeva il 90% del paese . Terra che veniva condotta “In economia” ossia i lavori venivano affidati a personale stabile (gli obbligati) oppure ad avventizi, chiamati a fornire manodopera stagionalmente e pagati con salari di pochi centesimi. Erano questi a costituire il maggior numero della popolazione.
Stefano Jacini nell’Inchiesta commissionatagli dal neo Parlamento Italiano nel 1877, definisce il bracciante “una vera infermità morale ed economica”, ricordando la sua endemica miseria e il continuo ricorso al debito per sopravvivere”. “Gli avventizi che nei mesi invernali restavano senza cibo, si riunivano sotto ai municipi per chiedere lavori o sussidi, oppure uscivano dal distretto per farsi assumere come scariolanti in qualche opera di bonifica. In una cronaca del 1882, riportata su “Il Bacchiglione”, per quanto riguarda Castelbaldo si parlava di 200 capifamiglia incapaci di sfamare i propri figli, “col solco della vergogna sulla fronte per dover chiedere da mangiare“. Nel caso il bracciante chiedesse grano o farina ai proprietari terrieri, era tenuto a ripagare quanto ottenuto con interessi del 50, del 100 o anche del 200%”.
“Il contadino piangeva la vacca morta ma si rassegnava più facilmente alla perdita della moglie”
Lo stesso Stefano Jacini, negli “Atti della Giunta per la inchiesta Agraria” indica nella scarsa fertilità della campagna, causata dall’eccessivo sfruttamento e alla scarsa concimazione dovuta all’esigua presenza di animali”, la causa per le basse rese che non assicuravano raccolti così soddisfacenti nemmeno per i proprietari. “Secondo stime del 1873, i fertili campi del padovano avrebbero potuto arrivare ad una resa di 40 ettolitri per ettaro di frumento ma nel distretto di Piove la resa media era di soli 10 ettolitri; era di 13-14 in quello di Conselve; ad Este si raggiungevano i 20 e a Montagnana le rese superavano appena i 10 ettolitri”. “I prezzi dei grani variavano da distretto a distretto, da cantone a cantone, il prezzo del frumento era in generale inferiore a quello del granoturco … e nell’anno 1815 le infelici plebi rurali erano costrette a ricorrere alla rimanete provvista di frumento tenuto in serbo nei granai dei grossi proprietari o degli speculatori. Questi coglievano allora il destro della mancanza di frumentone per fare aumentare artificiosamente, a danno soprattutto dei contadini, anche il prezzo del frumento e delle altre derrate e così le plebi rurali erano sempre le prime a sentire gli effetti dei cattivi raccolti e dell’ingordigia di quelli che speculavano sulla miseria altrui”.
Gli avventizi che nei mesi invernali restavano senza cibo, si riunivano sotto ai municipi per chiedere lavori o sussidi,
oppure uscivano dal distretto per farsi assumere come scariolanti in qualche opera di bonifica
Povertà, dunque, significava davvero fame ma anche collera verso un mondo ingiusto. Miseria era sinonimo e sintomatico di abbruttimento, perdita di fede e dei valori umani. Secondo quanto testimoniato dal Pretore di Montagnana in una relazione, “Il contadino piangeva la vacca morta ma si rassegnava più facilmente alla perdita della moglie”. Forse anche per questo il contadino era visto con una certa diffidenza tra i benestanti, era forse abominevole nel suo aspetto fisico ma probabilmente preoccupava molto più la sua latente aggressività causata dalla denutrizione. “Ad Occhiobello, a Monselice a Montagnana i contadini erano trattati come vile servidorame”. “Molte delle malattie che affiggevano la popolazione contadina erano rafforzate dalla malnutrizione. Nel distretto di Padova, l’ordinaria alimentazione era costituita principalmente dalla polenta composta dalla farina di mais, fagioli e acqua non sempre sana”. “Il vino mancava quasi assolutamente e il riso o la “risetta” era cibo esclusivo della domenica. A Natale o a Pasqua poteva apparire in tavola anche la carne” .
“Per avere idea della malnutrizione nella nostra regione di allora, basti pensare che nelle cause di riforma dal servizio militare dei coscritti nel periodo 1863-1876, il contingente del Veneto denota il peggior regime alimentare e i maggiori stenti di vita tra tutti quelli delle altre regioni”. La denutrizione, spesso legata a malattie come il tifo, la malaria il vaiolo minavano in profondità l’aspetto fisico di queste persone se non più di frequente quello psichico, come nel caso della pellagra. Le case infestate di umidità e di insetti, poco illuminate e nelle stagioni fredde per niente riscaldate, costituivano gli incubatori di queste malattie. “Alcuni, d’inverno, giravano lungo siepi e fossati per sradicare qualche pianta giudicata inutile … costeggiavano gli stagni per tagliare le canne inaridite e luccicanti per il gelo, o le “brecane” sparse lungo i fossati … persone miserabili giravano per campi brulli per sradicare i resti delle canne del granoturco che poi portavano ancora ghiacciati a bruciare sui poveri focolari”.