Il pane a Venezia, identità tra mare e terra ferma
La stessa natura marinara della città ha selezionato tipologie sue proprie, come i Bussolà o il Panbiscotto: resistenti al tempo e alle muffe durante i mesi di navigazione
Articolo a cura di Andrea Duò
La panificazione nei secoli precedenti la nascita di Cristo va ascritta nella cultura greco-romana, la globalizzazione a cui l’impero diede luogo, uniformò anche gli aspetti più domestici della vita nei luoghi assoggettati. Nel periodo successivo, dominato dalla invasioni barbariche, invece, il rimescolamento culturale fu profondo e fu spinto da culture estranee a quelle locali che promossero gusti e pratiche, anche per il pane, che in precedenza non esistevano. Sicché è solo dopo la nascita di Venezia, nel 697 D.C., che si può parlare di un processo di evoluzione e differenziazione della produzione di pane in veneto, o comunque delle zone sottomesse alla Serenissima Repubblica. Questo perché da subito Venezia iniziò a costruire una propria identità, molto diversa dal resto della penisola, grazie ai contatti con il mondo Adriatico, e non solo quello, e al particolare rapporto che la legava anche alle città del proprio entroterra.
L’’utilizzo e il reperimento del grano e, dopo la scoperta dell’America, del mais per la polenta, impose a Venezia di guardare sempre attentamente alle colonie e alle terre coltivabili. I patrizi veneziani sapevano che la loro potenza era nella forza e nel dinamismo delle loro navi e dei porti che riuscivano a controllare, ma riuscirono a comprendere l’importanza di una agricoltura che offriva loro la possibilità di possedere le materie prime mancanti a Venezia. Con l’agricoltura, trovarono un sistema per reinvestire a basso costo i proventi dei loro commerci. Le ville venete erano sinonimo di controllo del territorio e delle risorse utilizzabili. Lo stesso dicasi per un elemento essenziale come il sale, per il cui controllo Venezia ingaggiò feroci battaglie.
Molto popolari erano poi le ciope o ciape che richiamano direttamente i glutei come auspicio di pane beneaugurante e portafortuna
A Venezia il pane era per tradizione il “bovolo”. Nei mosaici del XII secolo di S. Marco vengono già rappresentati dei pani non molto grandi a forma di chiocciola. Nella città Marciana esistevano il pan bianco e il pan traverso, quest’ultimo un pane integrale con crusca. Al bianco appartenevano i bussolai, i bigarani, i bianchetti (a forma di ciambellina piatta) e i sfojadini che hanno un buco centrale più ristretto degli altri. Le rosette (michette a Milano) derivanti invece dal pan bianco francese molto in auge nel XVIII secolo. Nel XIX secolo si diffuse invece sul territorio il pane tedesco (il montasù ne è un derivato) e il kaiser. Tedeschi erano i pani a base di kummel chiamate semenze o semenzete servite come panini farciti di prosciutto di Praga. Tedeschi in origine furono anche le dresse (trecce) e i saltinpanza impastati con latte o strutto e lucidati con uovo. Tutti questi prodotti di origine austroungarica oggi li definiremmo viennoiserie. Dalla Francia e dalla baguette si mutuarono invece i filoni, che divennero poi bastoni. Molto popolari erano poi le ciope o ciape che richiamano direttamente i glutei come auspicio di pane beneaugurante e portafortuna. Unico pan traverso a resistere furono le massarine che erano a forma di grandi ciope con farina integrale macinata molto grossa. Molto apprezzati anche i pani della terraferma di Goldoniana come il pan de Marocco, località di Mogliano Veneto, provincia di Treviso, il pan de Meolo, che invece si trova nella parte orientale della provincia di Venezia e i bussolai chioggiotti, derivanti direttamente dai buccellatus Romanici, che meritano un discorso a parte. Pane di lunga durata per eccellenza e ispiratori del detto veneziano rurale-marinaresco Pan duro, Pan sicuro, devono la loro fama alla loro estrema conservabilità. Utilizzato inizialmente per le galee, già dal 1280 erano seguiti da una Magistratura dedicata che controllava la fabbricazione di questo prodotto. Tale tipo di pane è stato per secoli il compagno ufficiale dei marinai sulle tratte di navigazione veneziane. A Venezia venne anche messa a punto la Galeazza, utilizzata per la prima volta dai Veneziani di Sebastiano Venier nella battaglia di Lepanto. Queste navi rappresentarono il passaggio tra la galea e il galeone e nella stiva esisteva un apposito sito di stivaggio per il pane biscotto. Non potendo panificare giornalmente e non volendo rinunciare ad un alimento così apprezzato, Venezia seppe far sua questa usanza in quanto voleva evitare le malattie tipiche del mondo marinaresco, in primis lo scorbuto. Per combatterlo si utilizzava anche la salicornia sottaceto. A riprova di ciò il detto “chi ga santoli, ga buzzolai” vale a dire che chi ha protezione può ottenere ciò che vuole. La Serenissima diede un ruolo strategico a questo pane anche dal punto di vista militare.
I pani delle suore della Celestia, nel sestiere di Castello venivano impastati con l’oro in concomitanza del Carnevale o di banchetti importanti
Dal XV secolo il pane biscotto, veniva preparato da fornai tedeschi (apprezzati per la loro precisione) sotto il diretto controllo delle autorità della Repubblica. Si costruirono in totale 34 forni, ma nel periodo di massima espansione, alla metà del Seicento, Venezia fece costruire “forni militari centralizzati” sull’isola di Sant’Elena. Ciò fu deciso dal Consiglio dei Dieci per evitare dispersioni, sprechi o occhi indiscreti. Il pane biscotto preparato in Calle S. Martino era famoso per la sua durata e lo si apprezzava perché non veniva attaccato da tarli o parassiti, era stato brevettato per questo motivo. Altra ricetta perduta di Venezia, erano i pani delle suore della Celestia, nel sestiere di Castello. Questi pani, preparati in concomitanza del Carnevale o di banchetti importanti, avevano la particolarità (forse leggendaria) di essere impastati con oro. Ricetta segreta che le consorelle si sono portate con sé. Dal pane biscotto si ricavavano il frisopo e la Sopa de pan. Il frisopo, nella sua versione familiare prevedeva l’utilizzo del pane biscotto in una zuppa addizionata di latte, brodo o vino dolcificato con zucchero, miele o Sapa (mosto cotto raddensato). Il frisopin de tera era composto invece di pezzi di bestiame e polli razziati dai soldati nel corso delle loro conquiste. Gli animali, soprattutto bolliti venivano poi inzuppati nel loro brodo con il pane biscotto. Il frisopin dei putei era invece la zuppa per i bambini ed era a base di pane biscotto, latte e miele. Il frisopin dei veci prevedeva l’utilizzo di vino caldo, zuccherato o addizionato di miele. La sopa o supa de pan era una zuppa di pane raffermo tagliato a fette, bagnata con brodo bollente, grana grattugiato e pepe. In qualche occasione era arricchita con un tuorlo o con l’uovo intero. Nel tal caso diventava panimbruo
che era invece composto di fette di pane tostato (in genere fritto in olio, burro o strutto) decorato con un uovo, grana grattugiato, sale, pepe e ovviamente abbondante brodo. Tutte queste ricette erano ovviamente le antenate della più recente panada o panà, ossia le moderne zuppe di pane nelle varie versioni arrivate a noi.
Nella sua toponomastica si possono trovare a Venezia decine di “calli del forno” o “del forner” e altrettante calli, sotoporteghi e ponti “del pistor”. Ma esiste anche una calle, un rio, un ponte e un Palazzo Morosini “del Pestrin” che altri non era se non il macinatore di grano o mugnaio. I granai della città invece erano in un luogo strategico per il controllo e la distribuzione, ma soprattutto erano guardati a vista dalle autorità. I magazzini del grano chiamati granai di Terranova, erano infatti adiacenti Piazza San Marco. Costruiti tra il 1343 e il 1345, essi sostituirono l’antica area cantieristica dei grandi squeri (cantieri navali denominati Arsenale ndr). I granai di Terranova erano sorvegliati direttamente dai Patroni dell’Arsenale, al suo interno vi si trovava anche il Magistrato della Sanità. La facciata, coronata da un’elegante merlatura, alternava triangoli e guglie ed era contraddistinta da tre altissimi portali, con archi a sesto acuto, che introducevano e si aprivano a lunghe calli coperte. La Piazza antistante era brulicante di piccole attività economiche collegate alla vita quotidiana di allora ed era denominata della “Pescaria”. Lo stabile era diviso in quattro corpi principali di quattro piani, per evitare muffe erano illuminati e aerati da un grande numero di finestre, i felini e le trappole apposite tenevano sotto controllo i roditori. Inutile aggiungere che il Palazzo fosse abbondantemente sorvegliato, in esso infatti vi erano il deposito del sale e la Zecca.