59 milioni di sfumature di Tiramisu’

Storia, vita, morte e miracoli del più celebre dei dessert veneti
Articolo e ricetta a cura di Anna Maria Pellegrino
Sedetevi al computer e provate a digitare “tiramisù” e vi ritroverete con 59 milioni di risultati. La Gioconda, che è sul mercato da svariato tempo, ne fa cinquanta in meno.
Un successo senza precedenti per un dessert veneto che nel giro di trent’anni è diventato un brand, come la Ferrari o la Nutella, e che inizia dall’umile “sbatudìn”, uova e zucchero montati dalle nonne per i nipotini sfiancati dallo studio e dal gioco: il ricostituente più amorevole del mondo.
La ricetta è ancora uguale dopo oltre trent’anni: due strati di savoiardi, 30 per strato, imbibiti di caffè e ricoperti da una crema al mascarpone preparata con 12 tuorli d’uovo, 500 g di zucchero e 1 kg di mascarpone
C’ERA UNA VOLTA LA ZUPPA INGLESE
Per raccontare il fenomeno Tiramisù bisogna partire da lontano. Infatti è uno dei figli di un dolce nato in Romagna, forse alla corte degli Estensi, a Ferrara, diversi secoli fa, una sorta di zuppa inglese, che, con l’arrivo degli austriaci dopo il Congresso di Vienna (1815) copiò alcuni elementi dai dolci viennesi. Nel trevigiano, in particolare i savoiardi, al posto dell’alchermes furono bagnati col caffè, e cosparsi con polvere di cacao.
In Emilia, invece, si ricopriva il dolce di pinoli (da cui, per somiglianza, il nome “Porcospino”) e un dolce analogo lo preparava negli anni ’30 il celebre ristoratore Leone Agnoletti nel suo ristorante di Giavera del Montello (a quel tempo e fin dopo la guerra il più famoso della provincia di Treviso) e lo chiamava anche lui “Porcospino”.
Ma partiamo dall’inizio ovvero da quando il dolce veniva comunque preparato in casa ma non era stato ancora battezzato e per compiere un’indagine che si rispetti il web non ci è di molto aiuto visto che la ricerca ci offrirebbe milioni di ricette diverse, alcune delle quali al limite della denuncia per maltrattamenti, come quella preparata con il tofu. E’ indispensabile una libreria ed io mi sono affidata alla mia, reparto storico-antropologico.
Ranieri da Mosto, elegante patrizio e fine gastronomo veneziano, nel suo “Il Veneto in cucina” (Giunti Editore, 1978) non ne fa menzione, pur elencando dolci oramai scomparsi dalla memoria dei più e nel “Saggi di Cucina Veneta ed accostamenti ai Vini” pubblicato nella primavera del 1979, non se ne trova traccia.
ll decennio successivo si apre finalmente con due certezze vergate dalla penna di due colonne dell’enogastronomia come Giovanni Capnist e Giuseppe Maffioli. E’ il 1983 e nel “I dolci del Veneto” (Franco Muzzio Editore), si legge “Tirame sù”, definita “recente ricetta veneta” dove tra gli ingredienti compare anche un po’ di panna fresca, appena cinquanta grammi.
I MITICI ANNI OTTANTA
Ma è scorrendo l’indice delle ricette del libro “La cucina trevigiana” (Franco Muzzio Editore), scritto da Giuseppe Maffioli nel 1983, che il dolce più conosciuto al mondo fa bella mostra di sé, con una sezione di approfondimento dove si intuisce che la Zuppa Inglese è la madre di tutti i Tiramisù.
Maffioli presenta la ricetta de “Il tiramesù”, indicandola come quello “legittimo delle Beccherie”, il ristorante ubicato dietro Piazza dei Signori nella cui cucina Lolli “Loy” Linguanotto, giovane pasticcere che aveva lavorato in Germania per un certo tempo, lo preparò per la prima volta. La ricetta è ancora uguale dopo oltre trent’anni: due strati di savoiardi, 30 per strato, imbibiti di caffè e ricoperti da una crema al mascarpone preparata con 12 tuorli d’uovo, 500 g di zucchero e 1 kg di mascarpone. Una spolverata di cacao amaro e voilà, pronto per uscire in sala. La forma tonda, infatti, “tradisce” la sua natura di torta e il servizio con il piatto in acciaio racconta un dessert da ristorazione.
DA TONDO A RETTANGOLARE
Da quella comanda la strada è stata tutta in discesa, varcando monti ed oceani, letteralmente, e diventando un’icona golosa, il dolce moderno più conosciuto al mondo e tradotto in 23 lingue: preparato da Sofia Loren negli studi della CBS con David Letterman e sognato da Bridget Jones per curare le delusioni d’amore.
Si racconta che anche il papa emerito Joseph Ratzinger ne sia particolarmente goloso, ma nella versione con le fragole.
Ma quante versioni esistono al mondo?
Moltissime, e Clara e Gigi Padovani, nel loro “Tiramisù” (Giunti Editore, 2016), ne raccontano tante, compreso uno preparato con il couscous ed uno con la pastinaca abbinata al mascarpone. Ma è la ricetta “Tirami su al Philadelphia” scritta da Wilma De Angelis nel suo “Le mille meglio”, edito nel 1988 da Wark Over, che sdogana definitivamente il dolce e ce lo consegna nella versione desperate housewives e nella forma rettangolare, quella preparata e servita da tutti noi.
Maffioli presenta la ricetta de “Il tiramesù”, indicandola come quello “legittimo delle Beccherie”, il ristorante ubicato dietro Piazza dei Signori nella cui cucina Lolli “Loy” Linguanotto, giovane pasticcere che aveva lavorato in Germania
VENETO O FRIULANO?
E’ vero che i natali del Tiramisù sono condivisi con il Friuli Venezia Giulia ma è anche vero che è la versione trevigiana quella che ha conquistato il mondo.
E’ sicuramente probabile che in altre parti d’Italia, come la Carnia, qualcuno facesse un dolce similare oppure che chiamasse “Tirimi-sù” un dolce allo zabaione (proprio perché ricco di calorie). A Tolmezzo un ristoratore che lavorava all’Albergo Ristorante Roma lasciò tra le sue carte un conto nel quale si legge la parola Tiramisù, ma come fosse fatto non si sa.
Conclusione: nulla vieta che a Tolmezzo in una particolare occasione nel corso degli anni ’50 del secolo scorso il cuoco del Roma abbia preparato un dolce chiamandolo Tiramisù, ma in breve tempo la sua memoria era già scomparsa tanto è vero che in Carnia da allora non lo si è più trovato.
SIGNORINA, PERMETTE?
Versione sacra e versione pagana, maliziosa, direi. Si racconta che un oste trevigiano, durante una fredda serata di fine Ottocento, realizzò che non sarebbe riuscito a vendere tutti i panettoni che aveva acquistato a Milano.
Non è che non piacessero, forse visti con un po’ di diffidenza ma, insomma, non c’era proprio verso di farli apprezzare. D’improvviso l’illuminazione! L’oste decise di tagliare a fette i panettoni invenduti, di bagnarli di caffè e di farcirli con una crema, spolverando con del cacao amaro. Neanche a farlo apposta in quel momento si fermò un noto gentiluomo di Castelfranco, per rifocillarsi dopo aver trascorso la serata a teatro. L’oste gli offrì la golosa novità e il conte la trovò così corroborante che riuscì a godere della compagnia di alcune signorine fino a quando non fece giorno. Entusiasta, il nobiluomo battezzò il dolce Tiramisù, a ricordo di una notte memorabile.