La presenza del distretto conciario di Chiampo Arzignano a Greenweek non è sostenibile
I reflui e i prodotti chimici usati nelle lavorazioni delle pelli continuano ad essere un problema per le acque del Fratta Gorzone e di fatto ne impediscono il risanamento
Di Alessandro Tasinato
L’11 luglio scorso si è conclusa a Parma l’ottava edizione della Greenweek, la settimana dedicata alla promozione della green economy e delle cosiddette “Fabbriche della Sostenibilità”, l’evento vanta la partecipazione di molti importanti gruppi industriali italiani. Tra i protagonisti di questa edizione figura il distretto conciario di Chiampo-Arzignano che – soddisfando il 70% del mercato della pelle italiano e generando oltre l’1% del PIL nazionale – è il più grande d’Europa. Diversi sono stati i “workshop” durante i quali alcune aziende conciarie vicentine ritenute all’avanguardia nelle “performance ambientali” hanno rivendicato la propria “sostenibilità” nel lavorare la pelle, un tema cruciale per l’intero comparto che mira sempre di più a certificare i propri prodotti, per rispondere alle richieste del mercato.
Il distretto conciario vicentino, soddisfando il 70% del mercato della pelle italiano e generando oltre l’1% del PIL nazionale, è il più grande d’Europa
Né l’organizzatore di questi workshop (l’Unione Nazionale dell’Industria Conciaria), né i promotori dell’intera Greenweek (tra cui prestigiose università, istituzioni e fondazioni) hanno tuttavia accennato al più importante aspetto che con la “sostenibilità” della concia ha davvero a che fare. Le industrie di quel distretto, che utilizzano enormi quantità di prodotti chimici tossici, convogliano gli scarichi nei depuratori di Chiampo, Arzignano, Montecchio, Montebello, Lonigo. I reflui in uscita da questi cinque depuratori convergono poi in un collettore interrato che scarica le sue portate molto più a valle, precisamente nel fiume Fratta Gorzone a Cologna Veneta (VR). L’entità degli inquinanti scaricati nel fiume è tale da abbrunirne le acque per chilometri a valle, impedendone di fatto quel risanamento che la Direttiva Quadro sulle Acque (Direttiva 60/2000/CE) da oltre vent’anni prevede. Un tema, quello dell’inquinamento del Fratta Gorzone, che ha avuto recentemente rilevanza nazionale su tutti i media, anche riferibile alla contaminazione dei P-FAS, interferenti endocrini cancerogeni, sul sangue della popolazione locale, che è stata accertata da un esteso screening fatto dalla Regione Veneto. Sembra evidente che l’importanza di questo caso avrebbe dovuto costituire un necessario contraddittorio nella Greenweek, anziché essere totalmente glissato anche dai giornalisti che hanno fatto da moderatori.
La contaminazione dei P-FAS nel sangue della popolazione locale è stata accertata da un esteso screening fatto dalla Regione Veneto
Certificare un prodotto è una scelta volontaria da parte delle singole aziende che decidono di impegnarsi di più per ridurre gli impatti. In molti casi però i miglioramenti certificati riguardano la riduzione dell’effetto serra, dello strato di ozono, l’acidificazione, lo smog fotochimico. Fenomeni significativi di scala globale e, sì, senz’altro importanti. Tuttavia a volte poco coerenti col principale di tutti gli impatti di cui quella medesima industria, assieme all’intero comparto, può essere corresponsabile.
L’assenza di contraddittorio che ha contraddistinto la Greenweek è appannaggio in realtà di ben più gravi scelte operate dalle stesse istituzioni. Nel redigere l’aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque per il Fratta Gorzone per il quinquennio 2022-2027, l’Autorità di Bacino Distrettuale delle Alpi Orientali ha recentemente confermato la deroga secondo la quale il risanamento ecologico del Fratta Gorzone non risulterebbe ancora fattibile a causa della contaminazione storica dei suoi sedimenti dovuta (lo dice l’Autorità stessa) proprio a quel distretto conciario di Chiampo-Arzignano. Si tratta di un’affermazione che, a proposito dell’inquinamento, da un lato ne sancisce il nesso causale, dall’altro certifica l’inefficacia delle iniziative ad oggi adottate per contrastarlo.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di risanare il fiume applicando il principio di chi inquina paga
Investire nel proprio racconto – affidandolo a equipe di esperti qualificati, accreditati, che certificano l’azienda in base a degli standard dedicati alla riduzione degli impatti su contesti globali – pare sia tanto più necessario quanto più alto è il sacrificio imposto dal proprio profitto all’ambiente locale. Il rischio, per assurdo, è che ridurre di qualche chilogrammo la CO2 eliminando gli sprechi energetici dei propri bottali possa bastare all’azienda per riqualificare la propria immagine e farsi certificare l’impegno alla “salvaguardia delle generazioni future”, ingannando i consumatori e gli operatori che non conoscono il contesto reale e le gravi conseguenze che l’ambiente e la popolazione subisce proprio a causa del loro operare.
Camminare “con i piedi per terra” sembrerebbe la soluzione più adatta per scongiurare il grottesco. Ma a farlo dovrebbero essere innanzitutto le istituzioni: ripristinando l’obiettivo di risanare il fiume, applicando il principio di chi inquina paga, riscrivendo le autorizzazioni rilasciate al tubo, ai depuratori, alle singole aziende conciarie. In modo che la quantità dei loro scarichi sia compatibile con quanto il fiume può sopportare. La sostenibilità passa necessariamente attraverso il risanamento del fiume, quella sostenibilità che la popolazione locale attende, inascoltata, da oltre vent’anni e che purtroppo, anche eventi rinomati come Greenweek, decidono deliberatamente di ignorare.
Alessandro Tasinato è autore de “Il fiume sono io” – Bottega Errante Edizioni 2018, romanzo/indagine-narrativa sulla storia del fiume Fratta Gorzone