Il Covid-19 e il senso di inappropriatezza

Tra gli effetti collaterali all’epidemia andrebbe registrato anche lo spiazzamento causato dalle sua natura e dalle sue proporzioni. Sono mancate le misure, le cure e anche le parole per raccontarla
Il Covid-19 è entrato prepotentemente nella nostra storia. Ha sconvolto talmente in profondità la vita di ognuno sul globo che è destinato a segnare un’epoca, molto di più dell’11 settembre, molto di più di Chernobyl, molto di più del maremoto dell’Oceano Indiano. Perché di tutte e tre le tragedie riassume i caratteri più spaventosi: la velocità, la scia di vittime che ha lasciato dietro di se e l’imprevedibilità.
Lo spiazzamento, infatti, credo sia stato l’effetto accusato da tutti. Positivi o meno, siamo rimasti paralizzati davanti ad un fenomeno che si riteneva non potesse appartenere alla nostra epoca. Morire d’influenza, anche se un’influenza un po’ particolare, chi l’avrebbe pensato? Neanche il mondo medico era preparato ad un’emergenza di questa proporzione. L’impressione che ha destato, del resto, è rimasta codificata nelle parole che sono servite per il suo racconto, parole come peste, ad esempio, capace di evocare nell’immaginario collettivo tragedia, tenebra, paura, vulnerabilità, assenza di valore della vita. Insomma non è mancata solo l’esperienza diretta al fenomeno Covid-19, è mancato anche il vocabolario.
Tanto che i termini usati per descrivere la nuova realtà sono stati presi da altre epoche: peste appunto, generalizzando tra quella dei tempi di Giustiniano a quella “manzoniana”, “untore”; “monatto”; “quarantena”. Parole che nessuno conosceva più. E anche “virale” è sembrata fuori termine, ossia per niente attuale, relegata com’era tra gli “slang” dei nuovi mezzi di comunicazione, per esprimere quel “contagio” che però avviene solo via “social”. Epidemia, poi, come unità di misura, è stata insufficientemente capiente: sfruttata e abusata dai media nei “tempi di pace”, per definire anche il più banale dei raffreddori, è risultata svilita nella guerra del Covid-19 per raccontare una carneficina. Un po’ come succede con “caldo africano” o “caldo terrificante” quando vengono usati, a ogni piè sospinto, per annunciare i primi picchi del termometro della stagione estiva e poi non si hanno più parole proporzionate per spiegare i veri cataclismi portati dal mutamento climatico. No, non c’è niente nella storia recente che possa essere paragonato al Covid-19. Nulla che abbia messo così allo scoperto la nostra impreparazione ad affrontare, sul piano globale e non solo quello, un’emergenza.
Convinti che la medicina potesse avere una risposta per tutto, tranne che per quei pochi mali alla cui letalità siamo abituati, e forti di una cultura decennale che prevedeva l’atomica, l’uranio o le guerre come uniche minacce a livello mondiale, “due colpi di tosse” ci hanno tolto tutte quelle certezze che provenivano dalla modernità alla quale apparteniamo. Da questo punto di vista il Covid-19 vale come la Grande Guerra per il Positivismo. Anzi, forse siamo stati catapultati anche più indietro, tra le pagine di quel Medioevo pieno di tenebre e pipistrelli dove anche la medicina non è riuscita ad andare oltre alla quarantena, all’isolamento. Niente più confini, niente più stati, tutti, dall’Est all’Ovest, sotto un unico impero e comunque soli, nelle nostre case, a riflettere sul domani. Ma anche qui abbiamo scoperto di avere degli anticorpi, i soliti nostri: l’ottimismo, le canzoni cantate dai balconi, la solidarietà via “tam-tam” come quelle comunità di ominidi appena scese dagli alberi che compresero che nella socialità stava il primo passo verso la sopravvivenza.
Ecco: in questo viaggio nel tempo, forse, è stata recuperata la dimensione dell’Homo, ossia di quella specie fragile che ogni tanto si accorge che nel mondo naturale è venuta alla luce come “preda”, seppur sentendosi “predatore”. E ci eravamo appena abituati all’idea di essere noi la “malattia” della Terra che di colpo è venuta a galla la nostra irrilevanza. Perché nel bene e nel male l’opinione di noi stessi è stata messa in discussione da un organismo, bisogna riconoscerlo, più progredito di noi. Un virus la cui evoluzione non l’ha portato di certo a camminare su due gambe, ad avere un cervello più grande, capace di contenere intelligenza sensibile, ad imparare a servirsi di parola e strumenti, ma a fare un salto di specie, a passare dal pipistrello a un altro animale: più numeroso, più mobile sul pianeta e più sociale. Ossia noi, come specie capace di dare maggiori certezze per una vita prospera e numerosa, una volta annidato nei nostri polmoni. Ci ha individuati, ci ha scelti e poi attaccati perché anche la sua evoluzione ha come fine la sopravvivenza e come tutte le evoluzioni è un adattamento a circostanze transitorie, alla fine ne serviranno altre per andare avanti. Diversamente sarebbe l’estinzione.
E quindi, per non vedere nel Covid-19 solo un virus, la causa di due mesi ai domiciliari o il brutto colpo inferto all’economia italiana, il nostro compito evolutivo, anche se tutto razionale, dovrebbe portarci a una consapevolezza nuova, a una visione del genere umano diversa. A cominciare dal sentirci parte di un insieme, l’ambiente, a riconsiderare il tempo, i rapporti tra noi e quello che ci circonda. In queste settimane soprattutto ci è mancata l’aria, lo spazio, il verde e la possibilità di farne parte in forma aggregata, ma potrebbe anche essere che gli uomini del domani non possano disporne in maniera definitiva a causa di un inquinamento e una devastazione che sta prendendo velocità da contagio.
E allora se Chernobyl ci è servita ad evitare di intraprendere strade pericolose, l’11 settembre a considerare vulnerabili anche zone che parevano inattaccabili e il maremoto indo-asiatico del 2004 a considerare che siamo fatti di fragili fili, il Covid-19 ci serva per capire che noi, i virus, il pianeta andiamo tutti nella stessa direzione, quella del tempo e nel tempo saremo costretti ad incontrarci ancora.