
Cipriani è un nome che nel mondo significa classe, Harry’s Bar, diverse forme di ristorazione, Bellini e soprattutto la Venezia del Ventesimo secolo
Arrigo Cipriani, inquieto 85enne, re dell’Harry’s Bar. Il locale di Calle Vallaresso 1323 è la sede del suo regno che si estende dall’America, con 12 locali e 2 alberghi, a Montecarlo, a Hong Kong, a Dubai, in Arabia Saudita e a Londra. Nell’entroterra veneziano ha sede un pastificio, un caseificio e nell’Isola di Torcello ha dato vita a una coltivazione di carciofo “violetto”, meglio conosciute come “castraure”, a dando ad un esperto contadino la cura di oltre quarantamila preziose piantine. Dalle cucine di Venezia, quindi, è iniziato tutto e in tutto il mondo si possono assaggiare il piatto e il cocktail simboli di una “grande bellezza” italiana. La storia del celebre locale conosciuto in tutto il mondo e che ha servito re, principi, i protagonisti della Storia e le stelle dello spettacolo – da Woody Allen a Giorgio De Chirico, da Ernest Hemingway a Frank Sinatra – la si può leggere anche nel suo ultimo libro “Harry’s Bar Venezia”, edito da Giunti, dove storie e ricette prendono vita tra le mura dell’unico esercizio pubblico che negli ultimi cento anni ha ricevuto un riconoscimento dal Ministero dei Beni Culturali come “luogo di interesse nazionale per la sua testimonianza del Ventesimo secolo a Venezia”. Mi siedo su una delle poltroncine, studiate nei minimi particolari nelle forme e nell’altezza, come i tavolini, che arredano una stanza piena di avventori sorridenti e non rumorosi. Ecco apparire il mitico Bellini servito in un bicchiere cilindrico, un tumbler alto. Il cameriere, che indossa una giacca candida e dai modi oltremodo gentili, con gesti che assomigliano a una danza, piega ad arte i tovaglioli logati dal celebre simbolo. “Le porto anche una polpetta?” Arriva, perfetta, sembra preparata con il calibro. Ma non viene lasciata sul piatto. Viene avvolta da un tovagliolino in modo tale da poterla mangiare con le mani ma senza sporcarsi, come dovrebbe avvenire per ogni cicchetto che si rispetti. Naturalmente è buonissima, morbida e croccante, come buonissimo è il Bellini, preparato con il succo di pesca bianca e le bollicine del prosecco. E convengo con il barman che il tumbler alto è il “suo” bicchiere.
Arriva Arrigo Cipriani e si scusa dei pochi minuti di ritardo, si confronta brevemente con un cameriere e si siede. Un sorriso aperto e un paio di occhi dall’intelligenza arguta mi anticipano due ore di chiacchiere piacevolissime e leggere, mai frivole. “Dove sta andando Venezia?” gli domando con la voce un po’ roca dall’emozione. Un’ombra attraversa lo sguardo. “Di Venezia resteranno le pietre. Sono le persone che rendono viva una città. Le persone nella loro quotidianità, che fanno la spesa nei negozi di quartiere, che si incontrano e si salutano, che si occupano di tenere in ordine e puliti calli e campi”. E mi mostra le foto scattate qualche giorno prima con lo smartphone: ritraggono una panchina mezza divelta poco distante da un imbarcadero. “Ma le pare possibile? A Venezia? Cosa costerebbe ripararla? E cosa costa alla città una bruttura simile?”. Foto regolarmente inviate agli account social del sindaco, Brugnaro, a cui viene rimproverato di non essere veneziano. “È di Mogliano.” chiude tranchant con un sorriso che dice molto di più.
Mi racconta del suo recente acquisto, il raddoppio di piantine di “castraure”, che vengono lavorate nella cucina del ristorante di Venezia e poi spedite, per via aerea, agli altri locali della galassia Cipriani. Sono come dovrebbero essere le castraure: piccole, morbide, condite con un filo d’olio, deliziosamente sapide (la sapidità degli ortaggi veneziani) e disposte come un fiore sul piatto. Il bello che ritorna. Come nei gesti dei suoi collaboratori e come nell’altezza dei tavolini. Mi invita a restare per cena e ci spostiamo al piano di sopra, in una sala dai colori caldi. Gli chiedo se sono cambiati i clienti mentre viene stesa sul tavolo rotondo un’essenziale tovaglia di lino e viene apparecchiato con pochi pezzi. In un bicchiere da champagne, di quelli meravigliosamente forgiati a piccola coppa, viene versato un Ribolla gialla spumantizzato davvero notevole, di produzione di un’azienda agricola del trevigiano, anch’essa presente in tutti i suoi locali. “Venezia mette più soggezione di Ibiza e comunque si riconoscono da lontano e non solo per l’outfit: sono disposti a spendere anche 800 euro per la bottiglia più costosa e non sanno neanche che vino è. Ma anche a Venezia, purtroppo, qualcosa è cambiato e lo evince proprio dall’abbigliamento. Rispetto ad anni fa c’è più libertà nel vestire e mi auguro che questa tendenza cambi. È una forma di rispetto reciproco essere ben vestiti”.
Ed ecco apparire “il” carpaccio, il piatto di carne cruda e accompagnato con un filo, un filo!, di salsa “universale” (perché va bene con tutto, come precisa Arrigo) preparata con maionese, pepe e un po’ di salsa Worcester. Si scioglie in bocca nella sua morbidezza, temperatura di servizio perfetta. La bellezza si cela anche in un piatto apparentemente semplice e impeccabile. Senza che la pietanza principale sia adagiata “sopra un letto di qualcosa”. Mi chiede se voglio una fetta di torta. Non riesco a replicare. Ancora con movimenti felpati, come quelli di un gatto e senza che ciò distragga la conversazione, viene cambiata la tovaglia (si, avete letto bene, il dessert viene servito sopra una tovaglia intonsa) e arriva una fetta di torta al limone sopra la quale, vezzosa, fa bella mostra di sé una meringa morbida e appena “bruciata”. Gli chiedo se si sente uno scrittore, del resto ha al suo attivo molti libri e tutti di successo, e me ne fa portare subito un paio, che effettivamente non possiedo, tra cui uno “A Tavola” pubblicato da Rizzoli nel 1984, fuori produzione ahimè, che vi consiglio davvero di leggere. “I miei sono pensieri in libertà. Sono un ristoratore che scrive libri. Se fossi stato uno scrittore con un ristorante avrebbe fatto più notizia”. Trascorrono veloci i minuti e improvvisamente l’Apple Watch che indossa si illumina. “Avrei un appuntamento con il personal trainer, alla mia età devo prendermi cura di me”. E sorride ironico mentre si paragona alle castraure che coltiva “siamo entrambi molto vicini alla terra”. Ci salutiamo e ci promettiamo di vederci nuovamente soprattutto per condividere la bellezza del suo nuovo progetto ovvero quello di valorizzare la pesca del Montello per la preparazione del Bellini da servire in tutto il mondo. Esco dal locale affrontando una folla che spinge incolonnata, come a voler chiudere nel più breve tempo possibile il programma della giornata e mi domando se la bellezza salverà il mondo dalla stupidità. Mi rispondo con una frase di Zanzotto circa l’obbligo di difendere la bellezza “perché noi siamo il paesaggio che vediamo”.
Anna Maria Pellegrino