Fa più rumore un albero che cade o una foresta che cresce?

Dopo decenni condotti nel più dissennato disboscamento, ora le macchie verdi stanno tornando anche in pianura, ma qualche volta il tempo si mette di traverso
La recente devastazione di molte foreste della montagna veneta ha riportato in primo piano, e sotto gli occhi di tutti, l’importanza della gestione dei nostri boschi. Non è sull’onda di questi disastri che abbiamo deciso di scrivere questo articolo, che era già in programma, ma quanto è successo ci spinge a cambiare il taglio con cui lo avevamo pensato, che era quello di recuperare il ruolo storico che esso aveva nella vita della gente. Se oggi, ai più, gli alberi servono a fare ombra ai picnic e ad ospitare funghi e mirtilli, non è venuta meno l’importanza a livello geologico e ambientale, come gli eventi hanno dimostrato.
L’incuria dovuta all’abbandono della montagna è uno dei problemi, come lo può essere la piantumazione di specie inadatte all’ambiente o la poca diversità, l’edificazione in luoghi sbagliati e molto altro. Sono discorsi che vengono fuori spesso, finora soprattutto per gli incendi in estate. Ora – ma in realtà da tempo lo si dice – per le piogge e le frane. Non che tutto questo un tempo non accadesse: il pericolo incendi era ad esempio all’ordine del giorno. Possiamo però ricordare che la manutenzione del bosco, luogo in cui non si andava tanto per diletto quanto per questioni di sopravvivenza, incidesse in modo essenziale sulla limitazione di certi eventi. Dal bosco, che fosse di montagna, di collina o di pianura, si traeva legna per riscaldarsi, cucinare, lavare, lavorare. Col legno si costruiva quasi ogni cosa e c’erano fior di leggi che disciplinavano il taglio del legname. E del bosco non si buttava via nulla, anche i fuscelli caduti a terra avevano il loro ruolo nell’economia domestica.
Così il bosco rimaneva pulito, mai troppo fitto, i sentieri percorribili, anche i più piccoli che si inoltravano verso gli angoli remoti. È innegabile che l’abbandono della montagna abbia finito per lasciare a se stesse ampie fasce boschive, come probabilmente dimostra anche il loro ripopolarsi di animali scomparsi come il lupo. Vi sono interi pascoli abbandonati e aree un tempo agricole, ma oggi scomode e che nessuno coltiva più, che sono state invase dagli alberi: le foreste in Italia stanno quindi crescendo, ma non sempre come frutto di un progetto governato. Parlando di boschi pensiamo subito alla montagna, ma un tempo non era così: la pianura veneta era un’unica grande foresta. Gli storici latini la descrivono come una distesa di alberi – calcolata in un milione di ettari di querce, tigli e molte altre specie – inframezzate dagli acquitrini.
La pianura veneta era un’unica grande foresta. Gli storici latini la descrivono come una distesa di alberi, calcolata in un milione di ettari di querce, tigli e molte altre specie, inframezzate dagli acquitrini
L’erosione del manto forestale iniziò in particolare con le colonizzazioni romane, le centuriazioni, e poi continuò nel medioevo. I veneziani invece, che avevano necessità di molto legname, diedero vita a un programma di rimboschimento, ma dopo la caduta della Serenissima la distruzione riprese sistematica, tanto che negli anni Ottanta in pianura resistevano solo 50 ettari di bosco dei circa 10mila che dovevano avere lasciato i veneziani. Sono invece resistiti i toponimi, chiara traccia della presenza di foreste, come “Roncade” e l’ancora più chiara sua frazione, “Boschi”, ma anche Ronchi e Roncaglia (da “runcus”, terreno disboscato), Brusaure, Legnaro, Vigorovea (da “vicus roveri”), Selvazzano e tantissimi altri.
La buona notizia è che questi boschi oggi stanno ritornando e sono decuplicati, ormai più di 500 ettari. L’emanazione della legge regionale13 nel 2003, “Norme per la realizzazione di boschi nella pianura veneta”, nata sull’onda di finanziamenti europei ma anche di una mutata sensibilità, ha dato impulso all’impianto di nuovi boschi planiziali, nonché di parchi urbani e di aree verdi attrezzate composti di sole specie autoctone.
Un documento approvato nel 2017, la Carta di Sandrigo, ha posto come obiettivo tornare a 5mila ettari nel 2050. La strada è lunga, ma gli enti locali e qualche proprietario privato sembrano avere compreso l’importanza di aree boschive anche in pianura
Un impulso che ha consolidato una tendenza che era già in atto. Un documento approvato nel 2017, la Carta di Sandrigo, ha posto come obiettivo tornare a 5mila ettari nel 2050. La strada è lunga, ma gli enti locali e qualche proprietario privato sembrano avere compreso l’importanza di aree boschive anche in pianura. Che nascono per i più svariati motivi, sia naturalistici che di svago: il più grande bosco di pianura veneto oggi, il bosco di Mestre lungo il fiume Dese, ha invece motivazioni idrauliche. Il secondo per dimensioni si trova a Bosco di San Stino di Livenza, dove sono stati ricostituiti due antichi boschi arrivando a oltre 100 ettari: l’autostrada ne costeggia il confine sud. Da notare che gli alberi di queste nuove piantumazioni sono quasi sempre specie locali, per lo più fornite dal vivaio regionale centrale che Veneto Agricoltura gestisce a Montecchio Precalcino.