Alessandro Tieghi, artista e artigiano per amore della curiosità

In una bottega di Adria il tempo fa avanti e indietro tra ceramiche di gusto medievale, piccoli oggetti dal sapore rurale, giochi e giocattoli che nascono ogni giorno dalla creatività di chi sa interpretare la sua terra
Alessandro Tieghi è un artista artigiano, lavora inventando, ma anche riproponendo oggetti che appartengono alla storia e al paesaggio in cui vive. Non ci sono limiti alla creatività e quindi neanche alla produzione, nella sua bottega di Adria a fianco di copie fedeli di ceramiche attiche o medievali ci sono i burattini, maschere, pipe giochi e ninnoli creati con il gusto di ridare loro una vita, una
funzione o semplicemente di riproporli perché sono belli.
Da dove nasce la sua passione per l’arte?
“Nasce parecchi anni fa a scuola. Frequentavo le elementari e la maestra mi chiamava sempre alla lavagna per fare i disegni. Probabilmente mi riuscivano bene. Devo ringraziarla per aver colto di me questa dote. Ho continuato e nel tempo ho avuto sempre degli ottimi insegnanti. All’università arrotondavo “la paghetta” facendo qualche lavoretto artistico che riuscivo a vendere nei mercatini. Poi sono arrivate le mostre, i quadri e l’arte mi ha travolto”.
Come ha iniziato?
“Ho finito di studiare medicina e non avevo assolutamente voglia di entrare in ospedale. Ho trovato un mercante d’arte
che aveva visto delle mie opere e ho iniziato a lavorare con lui. Nel frattempo frequentavo l’ambiente veneziano e le scuole d’arte sia private che pubbliche. L’Accademia, la scuola internazionale di grafica e ho conseguito i diplomi. Ho aperto uno studio grafico e così la mia carriera da professionista ha preso il volo”.
Com’è la giornata di un artista artigiano?
“Mi alzo di buon’ ora perché già durante il sonno scalpito per poter riprendere a lavorare: le prime ore del giorno ore sono per me le migliori. Sono da solo e c’è silenzio. Mi accendo la musica e via. Mi fermo quando il sole ormai è già alto. Il pomeriggio ci metto meno anima”.
Si ricorda il suo primo lavoro?
“Non c’è n’è uno vero e proprio, però ricordo con emozione di una prima commessa: una associazione mi ha chiesto una sessantina di piccole opere”.
Che rapporto ha con le immagini e con la materia di cui sono composte i suoi lavori?
“Mi piace immagazzinare immagini perché quelle sono essenziali per la mia vita: sento il bisogno di guardare e mi sento libero a contatto con gli odori e con i profumi. Quando vado alle mostre la prima cosa che faccio è “annusare” il colore”.
E con la storia, che rapporto ha?
“Adria ha una storia millenaria proprio per la ceramica. Dopo le prime importazioni dalla Grecia, iniziò la produzione locale detta Alto Adriatica. È una ceramica che imita nella tecnica quella attica, ma con uno stile più semplice perché rappresenta figure soprattutto di donne e non complesse scene mitiche. Poi è arrivata la ceramica medievale, definita graffita ad ingobbio, in cui risaltano i colori realizzati con gli ossidi, come il rame, sicché e riconoscibile per la predominanza del verde insieme al giallo, ottenuto con l’ossido di ferro. Continuo a produrre questo tipo di manufatti perché sono ancora moderni e a tutti gli effetti sono una produzione locale di cui
mi piace tenere vivo il ricordo e la storia”.
Un’attività per la quale è conosciuto anche in Cappadocia. È venuto da lei niente meno che un monaco del Monte Athos, una delle scuole dell’arte bizantina e della miniatura…
“È stata una sorpresa gradita. Un giorno ricevo una telefonata da un signore che si presenta come un monaco del Monte Athos e mi chiede se può venire da me per imparare la tecnica della ceramica grafita. Dopo pochi giorni me lo vedo capitare nel mio studio. Era un giovane ragazzo che aveva visto alcune mie opere. L’iconografia, ossia i disegni e le decorazioni, di questa particolare produzione
hanno origine persiana, da cui discende anche l’iconografia bizantina, è stata importata in Italia attraverso Venezia e i suoi traffici con l’Oriente. E questa visita del monaco, in qualche modo, almeno per me, ha chiuso un cerchio… una parabola vecchia di millenni e di rapporti tra Oriente e Occidente”.

La ceramica graffita ad ingobbio fu una produzione molto longeva. Venne importata dai mercanti veneziani nel basso Medioevo ma rimase attuale, con minime variazioni di stile, fino alla fine dell’Età Moderna. Interessò in modo particolare il Veneto ma ebbe centri di produzione importanti in Emila e in Lombardia.
Ma nella ceramica cerca di intrappolare anche le forme della sua terra, giusto?
“Ovviamente sì, ho un legame forte con la mia terra e anche le vecchie case rurali sono fonte di ispirazione. C’è una zona qui che si chiama “I sette camini”, un piccolo agglomerato di abitazioni con i colori e le forme che un tempo erano tipiche di tutti i paesi rivieraschi dell’Adriatico: grossi comignoli, a prova di venti marini, e i colori sgargianti come oggi si vede a Burano o Pellestrina. Da questo sparuto numero di case ho ricavato l’idea e le forme per riproporle in ceramica”.
E i burattini cosa centrano con il territorio?
“Ah, questi centrano di più con la mia storia personale. Quando è nato mio figlio Marco io avevo il compito di accudirlo perché mia moglie faceva l’insegnante e aveva meno tempo di me. E come fanno molti genitori ci si inventa di tutto per tenere buoni i figli e così invece che ai libri di favole ho pensato a dei burattini per raccontargli le fiabe. Avevo esperienza dei teatri come scenografo e fotografo e così alla fine con i burattini ci ho fatto anche uno spettacolo, poi presentato nelle province di Rovigo, Treviso e Verona”.
Ma ci sono anche “i pirla” …
“A qualcuno oggi suona come un’offesa. A Milano dare “del pirla” ad una persona significa dargli del fanfarone, dell’inconcludente, perché “la pirla” o “il pirla” è in realtà una trottola. Il girare su stessi o l’arrovellarsi senza scopo certo non può essere una qualità umana, ma la trottola è un gioco universale con il quale i bambini di qualsiasi latitudine ed epoca si sono divertiti, compreso me… anche nel realizzarli”.
Immagino che questi oggetti personali, nel senso che appartengono alla sua storia, facciano parte anche di una qualche collezione. Ho avuto un’intuizione corretta?
“No non sbaglia, un artista quasi sempre è un innamorato degli oggetti: delle forme, dei colori, dei sentimenti che un oggetto trattiene in se dalla sua epoca di appartenenza, dalla destinazione d’uso per la quale era stato progettato, per il semplice fatto che esiste. Colleziono giocattoli di latta, orologi, tappi di bottiglia, praticamente non butto nulla, ma accumulo oggetti con i quali poi mi piace
giocare trasformando la loro funzione, il significato, rubandone la poesia”.
Come si descrive?
“Credo che la mia dote sia la curiosità. Ci sono così tante cose da capire anche nelle piccole cose che anche i movimenti più minimi mi catturano, mi rapiscono e mi portano in uno spazio di attesa e di riflessione. Direi che la fantasia è quel talento di girare attorno alle cose per prenderle con il pensiero e non con le mani. Anche se in fondo sono un artigiano e con le mani ci lavoro”.
Mi viene da pensare che lei sia anche un buongustaio.
“Mi piace cucinare e trovo che anche questo sia una forma d’arte. Adoro reinventare le ricette tradizionali e accompagnarle con un buon bicchiere di vino”.