Agricoltura e occupazione. Il lavoro c’è, manca chi lo fa

Le mansioni agricole sono sempre più affidate ai lavoratori stranieri. I nostri giovani mancano quasi totalemnte dalla campagna, non sfruttano più il periodo di raccolta per racimolare qualche soldo per lo studio e lo svago
Nel film Cose dell’altro mondo del 2011, un imprenditore veneto, impersonato da Diego Abatantuono, vede realizzarsi il suo sogno: un’Italia senza stranieri. In novanta minuti il registra Francesco Patierno mostra gli effetti dell’esodo: fabbriche in crisi perché senza operai, famiglie che non sanno a chi lasciare gli anziani genitori, i bagni degli uffici che velocemente degradano. Insomma un’essenza evidente, che probabilmente si noterebbe anche di più in agricoltura perché in questo settore sempre più carente di manodopera la forza lavoro viene offerta in proporrzioni cospicue da personale straniero. Non voglio parlare di immigrazione, voglio, come sempre faccio su questo magazine, parlare di agricoltura e nella fattispecie di lavoro. Ossia quel lavoro che fino a qualche decennio fa veniva svolto anche da pletore di studenti che nei mesi di vacanza si precipitavano nei campi per guadagnarsi qualche soldo, approfittando delle varie campagne di raccolta. Cetrioli, patate, pere, mele …stiamo parlando di quelle produzioni che rientrano nello stesso made in Italy che inorgoglisce ogni connazionale quando ne sente parlare, ma non, evidentemente, a casa propria. Perché chi ha figli in quell’età non si sogna nemmeno di invitarlo a contribuire a rendere questo made in Italy sempre più prestigioso nel mondo. Probabilmente, in cuor suo, ha disegni molto più promettenti del made in Italy per la propria prole e del resto l’agricoltura assomiglia più ad un mestiere del passato che a uno del futuro. Non ci pensiamo mai, ma quando scegliamo il futuro dei nostri figli scegliamo anche quello del territorio. Le due cose sono sempre connesse. Parliamo del domani.
E il presente? Intanto il presente dice che questi lavori oggi vengono svolti da personale straniero. Nel settore lattiero-caseario, ad esempio, sono impegnati 31.600 lavoratori di origine indiana. Il settore frutticolo occupa 345.000 lavoratori non italiani (Romeni, Marocchini, Albanesi, Polacchi, … ), pari al 34% della forza lavoro necessaria per far andare avanti il settore stesso. Nella stessa percentuale rientra anche la vendemmia, laddove cui non è possibile la meccanizzazione (montagna, collina, vigneti a tendone), la raccolta delle mele in Trentino-Alto Adige o delle fragole nel Veronese. Bisogna riconoscerlo e ammetterlo: gli immigrati non vengono a rubarci il lavoro, ma a fare quei lavori poco nobili (per usare un eufemismo) ma indispensabili (tutti dobbiamo mangiare in qualche modo) che noi non vogliamo fare e che non facciamo fare tanto meno ai nostri delicati pargoli come esperienza. Quanti medici, imprenditori, banchieri e colletti bianchi in genere avete visto qui in Italia che non fossero italiani? Quanti chirurghi indiani ci sono nei nostri ospedali? Quante infermiere di colore? Quante commesse marocchine nei nostri negozi? Io queste persone le ho viste solo fare il lavoro di netturbino e raccogliere la frutta e la verdura “made in Italy” di cui andiamo tanto fieri nel mondo. Forse senza gli immigrati che li raccolgono, noi non mangeremmo ed esporteremmo tanti pomodori pachino!
La mancanza di manodopera, e l’incidenza del suo costo nelle rese dei prodotti agricoli, può diventare l’anticamera della chiusura di molte nostre attività. E passare dall’abbandono di alcune attività all’abbandono del territorio il passo è brevissimo
Secondo il dossier sull’immigrazione, stilato da Coldiretti nel novembre dello scorso anno, il 50,4% degli stranieri occupati in agricoltura si concentra in quindici province: Bolzano (6,1%), Foggia (6,0%), Verona (5,0%), Trento (4,4%), Latina (4,1%), Cuneo (3,7%), Ragusa (3,7%),
Cosenza (2,6%), Salerno (2,5%), Ravenna (2,4%), Bari (2,1%), Ferrara (2,0%), Forlì-Cesena (2,0%), Brescia (2,0%), Reggio Calabria (1,8%). Quest’anno, alcune organizzazioni sindacali hanno iniziato già da giugno a denunciare un allarmante carenza di manodopera per la raccolta delle primizie (fragole in primis). La denuncia riguarda, oltre le provincie già citate, anche quelle di Rovigo e Mantova in cui l’arduo reclutamento del personale, per la raccolta, ha messo in seria difficoltà i produttori di meloni e angurie. A questo vuoto si unisce anche quello normativo a riguardo dei sistemi di retribuzione: un giorno ci sono i voucher, il giorno dopo li tolgono, poi chi li ha tolti pensa di rimetterli ecc… Questo di certo non aiuta quei poveri volonterosi (pensionati compresi) che sarebbero disposti a lavorare!
Quelli invece che desiderano trovare scuse per non lavorare nei nostri campi sostengono che la paga sia troppo bassa per il sacrificio richiesto. In effetti, lavorare sotto il sole di luglio a quasi 40°C non è idilliaco. Ma allora, quanto deve incidere il costo della manodopera per la raccolta di un prodotto sul costo finale del prodotto stesso? Facciamo l’esempio della frutta: un raccoglitore di frutta percepisce circa 7,5/8 euro netti all’ora, ma ne costa al datore di lavoro che lo mette in regola circa 13, quindi se raccoglie 100-150 kg/ora di frutta la manodopera incide per il 25-30% del valore del prodotto. Un terzo del valore del prodotto se ne va in manodopera. Questo ovviamente accade quando il prodotto raccolto è pagato a prezzo pieno! Poi ci sono i casi di vero e proprio sfruttamento che sfociano nel caporalato, nel lavoro nero e in tutte quelle piaghe che purtroppo contribuiscono ad inficiare il settore agrario. Molti indicano il mondo della viticoltura come un modello da seguire e in parte può essere vero, ma va precisato che la salvezza di questo settore, trainante per il Veneto, è stata la meccanizzazione, specialmente in pianura. Grazie alla vendemmia meccanica la coltura ha potuto espandersi senza essere ostaggio della carenza di manodopera che sta interessando tutti gli altri settori agricoli.

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President Donald Trump arrives at Palm Beach International Airport in West Palm Beach, Fla
Trump, West Palm Beach, USA – 02 Mar 2018
Il problema non è di poco conto. Perchè la mancanza di manodopera, e l’incidenza del suo costo nelle rese dei prodotti agricoli, può diventare l’anticamera della chiusura di molte nostre attività. E passare dall’abbandono di alcune attività all’abbandono del territorio il passo è brevissimo. Purtroppo questo fenomeno non è solamente locale, ma interessa molti altri Stati come la Svizzera, l’Inghilterra e la Bulgaria (solo per restare in Europa). Al di fuori del vecchio continente ci sono due Stati in cui le politiche restrittive sull’immigrazione hanno creato non pochi problemi all’agricoltura. La decisione di Donald Trump di bloccare l’afflusso di migranti dal Messico ha messo in ginocchio gli agricoltori della California, il primo stato produttore statunitense di frutta e verdura. Questo ha portato, tra le altre cose, allo sviluppo di robot per la raccolta di ortaggi e frutta in campo con l’obiettivo di rimpiazzare i lavoratori umani, sempre più scarsi (ma in Italia mancano soldi per innovarsi!!!). L’altro Stato è la Nuova Zelanda che, insieme all’Australia, ha una politica migratoria molto restrittiva. Questa primavera il governo di Wellington ha dovuto fronteggiare il problema dei kiwi. Le produzioni più abbondanti del solito e la mancanza di manodopera hanno spinto la premier a concedere visti speciali ai turisti che avessero passato qualche settimana nelle aziende a raccogliere il frutto simbolo della nazione.
Tornando invece al tema dei giovani: abbiamo paura che sudino, che patiscano quello che abbiamo patito noi… ma in definitiva che cosa abbiamo patito? Eravamo ragazzi forti, scattanti,pieni di energia e salute. Che cosa si può volere di più dalla vita a quell‘età?